italo calvino
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Italo Giovanni Calvino Mameli
fiabe di
italo calvino
.
io credo questo : le fiabe sono
vere . Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e
sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della
vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze
contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a
un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il
farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé
un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per
diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano .
introduzione fiabe italiane
Se sono stato attratto dai folktales, dai fairytales,
non è stato per fedeltà a una tradizione etnica né per nostalgia delle
letture infantili ma per interesse stilistico e strutturale, per
l’economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate. Nel
mio lavoro di trascrizione delle fiabe italiane, provavo un particolare
piacere quando il testo originale era molto laconico e dovevo cercare di
raccontarlo rispettandone la concisione e cercando di trarre da essa il
massimo d’efficacia narrativa e di suggestione poetica .
sulla fiaba
.
FANTAGHIRO
:
www.recitarcantando.net/Fantaghiro-persona-bella.pdf
|
https://youtu.be
fiabe di IC
raicultura.it/Calvino-cantafavole |
il contadino astrologo
c'era una volta un re che aveva perduto
un anello prezioso. cerca qua, cerca là, non si trova. mise fuori un
bando che se un astrologo gli sa dire dov'è, lo fa ricco per tutta la
vita.
c'era un contadino senza un soldo, che non sapeva né leggere né
scrivere, e si chiamava gàmbara. "sarà tanto difficile fare l'astrologo?
-si disse- mi ci voglio provare". e andò dal re.
il re lo prese in parola, e lo chiuse a studiare in una stanza. nella
stanza c'era solo un letto e un tavolo con un gran libraccio
d'astrologia, e penna carta e calamaio. gambara si sedette al tavolo e
cominciò a scartabellare il libro senza capirci niente e a farci dei
segni con la penna. siccome non sapeva scrivere, venivano fuori dei
segni ben strani, e i servi che entravano due volte al giorno a
portarglì da mangiare, si fecero l'idea che fosse un astrologo molto
sapiente. questi servi erano stati loro a rubare l'anello, e con
la coscienza sporca che avevano, quelle occhiatacce che loro rivolgeva
gambara ogni volta che entravano, per darsi aria d'uomo d'autorità,
parevano loro occhiate di sospetto. cominciarono ad aver paura d'essere
scoperti e, non la finivano più con le riverenze, le attenzioni: "si,
signor astrologo! comandi, signor astrologo!
gambara, che astrologo non era, ma contadino, e perciò malizioso, subito
aveva pensato che i servi dovessero saperne qualcosa dell'anello. e
pensò di farli cascare in un inganno.
un giorno, all'ora in cui gli portavano il pranzo, si nascose sotto il
letto. entrò il primo dei servi e non vide nessuno. di sotto il letto
gambara disse forte: - e uno!- il servo lasciò il piatto e si ritirò
spaventato. entrò il secondo servo, e sentì quella voce che pareva
venisse di sotto terra: - e due! - e scappò via anche lui. entrò il
terzo, - e tre! - i servi si consultarono: - ormai
siamo scoperti, se l'astrologo ci accusa al re, siamo spacciati. cosi
decisero d'andare dall'astrologo e confessargli il furto.
- noi siamo povera gente, - gli fecero, - e se dite al re quello che
avete scoperto, siamo perduti. eccovi questa borsa d'oro: vi preghiamo
di non tradirci.
gambara prese la borsa e disse: - lo non vi tradirò, però voi fate quel
che vi dico. prendete l'anello e fatelo inghiottire a quel tacchino che
c'è laggiù in cortile. poi lasciate fare a me.
il giorno dopo gambara si presentò al re e gli disse che dopo lunghi
studi era riuscito a sapere dov'era l'anello.
- e dov'è? – l'ha inghiottito un
tacchino. -
fu sventrato il tacchino e si trovò l'anello. il re colmò di ricchezze
l'astrologo e diede un pranzo in suo onore, con tutti i conti, i
marchesi, i baroni e grandi del regno.
fra le tante pietanze fu portato in tavola un piatto di gamberi. bisogna
sapere che in quel paese non si conoscevano i gamberi e quella era la
prima volta che se ne vedevano, regalo di un re d'altro paese.
- tu che sei astrologo, - disse il re al contadino, - dovresti sapermi
dire come si chiamano questi che sono qui nel piatto. il poveretto di
bestie così non ne aveva maiviste né sentite nominare. e disse tra sé, a
mezza voce: - ah, gambara, gambara… sei finito male! – bravo! - disse il
re che non sapeva il vero nome del contadino. - hai indovinato: quello è
il nome: gamberi! sei il più grande astrologo dei mondo.
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La fiaba dei gatti
Una donna aveva una figlia e una figliastra, e
questa figliastra la teneva come un ciuco da fatica, e un giorno la
mandò a cogliere cicorie.
La ragazza va e va, e invece di cicoria trova un cavolfiore: un bel
cavolfiore grosso grosso. Tira il cavolfiore, tira, tira, e quando lo
sradicò, in terra s'aperse come un pozzo. C'era una scaletta e lei
discese.
Trovò una casa piena di gatti, tutti affaccendati. C'era un gatto che
faceva il bucato, un gatto che tirava acqua da un pozzo, uno che cuciva,
un gatto che rigovernava, un gatto che faceva il pane. La ragazza si
fece dare la scopa da un gatto e l'aiutò a spazzare, a un altro prese in
mano i panni sporchi e l'aiutò a lavare, all'altro ancora tirò la corda
del pozzo, e a uno infornò le pagnotte. A mezzogiorno venne fuori una
gran gatta, che era la mamma di tutti i gatti, e suonò la campanella:
- Dalin, dalon! Dalin, dalon! Chi ha lavorato venga a mangiare, chi non
ha lavorato venga a guardare!
Dissero i gatti: - Mamma, abbiamo lavorato tutti, ma questa ragazza ha
lavorato piú di noi.
-Brava, - disse la gatta, - vieni e mangia con noi -.
Si misero a tavola, la ragazza in mezzo ai gatti e Mamma Gatta le diede
carne, maccheroni e un galletto arrosto; ai suoi figli invece diede solo
fagioli. Ma alla ragazza dispiaceva di mangiare da sola e vedendo che i
gatti avevano fame, spartí con loro tutto quello che Mamma Gatta le
dava. Quando si alzarono, la ragazza sparecchiò tavola, sciacquò i
piatti dei gatti, scopò la stanza e mise in ordine.
Poi disse alla Mamma Gatta: - Gatta mia, ora bisogna che me ne vada, se
no mia mamma mi sgrida.
Disse la gatta: - Aspetta, figlia mia, che voglio darti una cosa -.
Là sotto c'era un grande ripostiglio, da una parte era pieno di roba di
seta, dalle vesti agli scarpini, dall'altra pieno di roba fatta in casa,
gonnelle, giubbetti, grembiuli, fazzoletti di bambace, scarpe di
vacchetta.
Disse la gatta: - Scegli quel che vuoi.
La povera ragazza che andava scalza e stracciata, disse: - Datemi un
vestito fatto in casa, un paio di scarpe di vacchetta e un fazzoletto da
mettere al collo.
-No, - disse la gatta, - sei stata buona coi miei gattini e io ti voglio
fare un bel regalo -.
Prese il piú bell'abito di seta, un bel fazzoletto grande, un paio di
scarpini di raso, la vesti e disse:
- Ora che esci, nel muro ci sono certi pertugi; tu ficcaci le dita, e
poi alza la testa in aria. La ragazza, quandò uscí, ficcò le dita dentro
quei buchi e tirò fuori la mano tutta inanellata, un anello piú bello
dell'altro in ogni dito. Alzò il capo, e le cadde
una
stella in fronte. Tornò a casa ornata come una sposa.
Disse la matrigna: - E chi te le ha date tutte queste bellezze?
- Mamma mia, ho trovato certi gattini, li ho aiutati a lavorare e
m'hanno fatto dei regali, - e le raccontò com'era andata.
La madre, l'indomani, non vedeva l'ora di mandarci quella mangiapane di
sua figlia.
Le disse: - Va' figlia mia, cosí avrai anche tu tutto come tua sorella.
-Io non ne ho voglia, - diceva lei, da quella malallevata che era, - non
ho voglia di camminare, fa freddo, voglio stare vicino al camino.
Ma la madre la fece uscire a suon di bastonate. Quella ciondolona
cammina cammina, trova il cavolfiore, lo tira, e scende dai gatti.
Al primo che vide gli tirò la coda, al secondo le orecchie, al terzo
strappò i batti, a quello che cuciva sfilò l'ago, a quello che tirava
l'acqua buttò il secchio nel pozzo: insomma non fece altro che dispetti
per tutta la mattina, e loro miagolavano, miagolavano.
A mezzogiorno, venne Mamma Gatta con la campanella: - Dalin, dalon!
Dalin, dalon! Chi ha lavorato venga a mangiare, chi non ha lavorato
venga a guardare!
-Mamma, - dissero i gatti, - noi volevamo lavorare, ma questa ragazza ci
ha tirato la coda, ci ha fatto un sacco di dispetti e non ci ha lasciato
far niente!
-Bene, - disse Mamma Gatta, - andiamo a tavola -.
Alla ragazza diede una galletta d'orzo bagnata nell'aceto, e ai suoi
gattini maccheroni e carne. Ma la ragazza non faceva altro che rubare il
mangiare dei gatti.
Quando s'alzarono da tavola, senza badare a sparecchiare né niente,
disse a Mamma Gatta: - Be', adesso dammi la roba che hai dato a mia
sorella.
Mamma Gatta allora la fece entrare nel ripostiglio e le chiese cosa
voleva.
- Quella veste là che è la piú bella! Quegli scarpini, che hanno i
tacchi píú alti!
- Allora, - disse la gatta, - spogliati e mettití questa roba di lana
unta e bisunta e queste scarpe chiodate di vacchetta tutte scalcagnate
-.
Le annodò un cencio di fazzoletto al collo e la congedò dicendo: -
Adesso vattene, e mentre esci, ficca le dita nei buchi e poi alza la
testa in aria.
La ragazza uscí, ficcò le dita nei buchi e le si attorcigliarono tanti
lombrichi, e piú faceva per staccarseli, piú s'attorcigliavano. Alzò il
capo in aria e le cadde un sanguinaccio che le pendeva in bocca e lei
doveva dargli sempre un morso perché s'accorciasse. Quando arrivò a casa
cosí conciata, piú brutta di una scoppiettata, la mamma ne ebbe tanta
rabbia che morí. E la ragazza a furia di mangiar sanguinaccío, morí lei
pure. Mentre la sorellastra buona e laboriosa, se la sposò un bel
giovane.
Cosí stettero belli e contenti, Drizza le orecchie che ancora li senti.
terra d'otranto
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II giardino dei gatti
ostinati La città dei gatti e
la città degli uomini stanno l'una dentro l'altra, ma non sono la medesima
città. Pochi gatti ricordano il tempo in cui non c'era
differenza: le strade e le piazze degli uomini erano anche strade e piazze
dei gatti, e i prati, e i cortili, e i balconi, e le fontane: si viveva in
uno spazio largo e vario. Ma già ormai da più generazioni i felini
domestici sono prigionieri di una città inabitabile: le vie
ininterrottamente sono corse dal traffico mortale delle macchine
schiacciagatti; in ogni metro quadrato di terreno dove s'apriva un
giardino o un'area sgombra o i ruderi d'una vecchia demolizione ora
torreggiano condomini, caseggiati popolari, grattacieli nuovi fiammanti;
ogni andito è stipato dalle auto in parcheggio; i cortili a uno a uno
vengono ricoperti d'una soletta e trasformati in garages o in cinema o in
depositi–merci o in officine. E dove s'estendeva un altopiano ondeggiante
di tetti bassi, cimase, altane, serbatoi d'acqua, balconi, lucernari,
tettoie di lamiera, ora s'innalza il sopraelevamento generale d'ogni vano
sopraelevabile: spariscono i dislivelli intermedi tra l'infimo suolo
stradale e l'eccelso ciclo dei super-attici; il gatto delle nuove nidiate
cerca invano l'itinerario dei padri, l'appiglio per il soffice salto dalla
balaustra al cornicione alla grondaia, per la scattante arrampicata sulle
tegole. Ma in questa città verticale, in questa città compressa dove
tutti i vuoti tendono a riempirsi e ogni blocco di cemento a compenetrarsi
con altri blocchi di cemento, si apre una specie di contro_città, di città
negativa, che consiste di fette vuote tra muro e muro, di distanze minime
prescritte dal regolamento edilizio tra due costruzioni, tra retro e retro
di due costruzioni; è una città di intercapedini, pozzi di luce, canali
d'aerazione, passaggi carrabili, piazzole interne, accessi agli
scantinati, come una rete di canali secchi su un pianeta d'intonaco e
catrame, ed è attraverso questa rete che rasente i muri corre ancora
l'antico popolo dei gatti. Marcovaldo, certe volte, per passare il
tempo, seguiva un gatto. Era l'intervallo del lavoro tra la mezza e le
tre, quando, tranne Marcovaldo, tutto il personale andava a casa a
mangiare, e lui – che si portava la colazione nella borsa – apparecchiava
tra le casse del magazzino, masticava il suo boccone, fumava un mezzo
toscano e girellava lì intorno, solo e ozioso, aspettando la ripresa. In
quelle ore, un gatto che facesse capolino da una finestra era sempre una
compagnia benvenuta, e una guida per nuove esplorazioni. Aveva fatto
amicizia con un soriano, ben pasciuto, fiocco celeste al collo, certamente
alloggiato presso qualche famiglia benestante. Questo soriano aveva in
comune con Marcovaldo l'abitudine della passeggiata di primo dopopranzo:
ne nacque naturalmente un'amicizia. Seguendo l'amico soriano,
Marcovaldo aveva preso a guardare i posti come attraverso i tondi occhi
d'un micio e anche se erano i soliti dintorni della sua ditta li vedeva in
una luce diversa, scenari di storie gattesche, con collegamenti
praticabili solo da zampe felpate e leggere. Sebbene il quartiere
dall'esterno sembrasse povero di gatti, ogni giorno nei suoi giri
Marcovaldo faceva conoscenza con qualche muso nuovo, e bastava un gnaulìo,
uno sbuffo, un tendersi del pelo su una schiena arcuata per fargli intuire
legami e intrighi e rivalità tra loro. In quei momenti credeva già
d'essere entrato nel segreto della società dei felini: ed ecco si sentiva
scrutato da pupille che diventavano fessure, sorvegliato dalle antenne dei
baffi tesi, e tutti i gatti attorno a lui sedevano impenetrabili come
sfingi, il triangolo rosa del naso convergente sul triangolo nero delle
labbra, e solo a muoversi era il vertice delle orecchie, con un guizzo
vibrante come un radar. Si giungeva al fondo d'una stretta
intercapedine, tra squallidi muri ciechi: e guardandosi intorno Marcovaldo
vedeva che tutti i gatti che l'avevano guidato fin là erano spariti,
tutt'insieme, non si capiva da che parte, anche il suo amico soriano,
lasciandolo solo. Il loro regno aveva territori cerimonie usanze che non
gli era concesso di scoprire. In compenso, dalla città dei gatti
s'aprivano spiragli insospettati sulla città degli uomini: e un giorno fu
proprio il soriano a guidarlo alla scoperta del grande Ristorante
Biarritz. Chi voleva vedere il Ristorante Biarritz non aveva che da
assumere la statura d'un gatto, cioè stendersi carponi. Gatto e uomo
in questo modo camminavano intorno a una specie di cupola, ai cui piedi
davano certi bassi finestrini rettangolari. Seguendo l'esempio del
soriano, Marcovaldo guardò giù. Erano lucernari con il vetro aperto a
tagliola da cui prendeva aria e luce il lussuoso salone. Al suono di
violini tzigani, volteggiavano pernici e quaglie dorate su vassoi
d'argento tenuti in equilibrio dalle dita bianco_guantate dei camerieri in
frac. O, più precisamente, sopra le pernici e i fagiani volteggiavano i
vassoi, e sopra i vassoi i guanti bianchi, e sospeso in bilico sulle
scarpe di vernice dei camerieri il lucido parquet, da cui pendevano palme
nane in vaso e tovaglie e cristallerie e secchi come campane con una
bottiglia di champagne per batacchio: tutto capovolto perché Marcovaldo
per timore d'essere visto non voleva sporgere la testa dentro il
finestrino e si limitava a guardare la sala rispecchiata all'incontrano
nel vetro obliquo. Ma più che i finestrini della sala erano quelli
sulle cucine a interessare il gatto: guardando nella sala si vedeva di
lontano e come trasfigurato ciò che nelle cucine appariva – ben concreto e
a portata di zampa – come un uccello spennato o un pesce fresco. Ed era
appunto dalla parte delle cucine che il soriano voleva guidare Marcovaldo,
o per un gesto d'amicizia disinteressata o perché piuttosto sperava
nell'aiuto dell'uomo per una delle sue incursioni. Marcovaldo invece non
voleva staccarsi dal suo belvedere sul salone: dapprincipio come
affascinato dalla gala dell'ambiente, e poi perché là qualcosa aveva
calamitato la sua attenzione. Tanto che, vincendo il timore d'esser
visto, faceva continuamente capolino a testa in giù. Nel mezzo della
sala, proprio sotto quel finestrino, c'era una piccola peschiera di vetro,
una specie d'acquario, in cui nuotavano delle grosse trote. S'avvicinò un
cliente di riguardo, con un cranio calvo e lucido, nerovestito e con la
barba nera. Lo seguiva un vecchio cameriere in frac che teneva in mano una
reticella come se andasse per farfalle. Il signore in nero guardò le trote
con aria grave e attenta; poi alzò una mano e con un lento gesto solenne
ne indicò una. Il cameriere immerse la reticella nella peschiera, inseguì
la trota designata, la catturò, si diresse alle cucine, reggendo davanti a
sé come una lancia la rete in cui si dibatteva il pesce. Il signore in
nero, grave come un magistrato che ha comminato una sentenza capitale,
andò a sedersi, in attesa del ritorno della trota, fritta «alla! mugnaia».
«Se trovo il modo di gettare una lenza di quassù] e far abboccare una di
queste trote - pensò Marcovaldo - non potrò essere accusato di furto, ma
tutt'al più di pesca non autorizzata». E, senza dar retta ai miagolii che
lo chiamavano dalla parte della cucina, andò a cercare i suoi arnesi di
pesca. Nessuno nel salone affollato del Biarritz vide il sottile lungo
filo, armato d'amo e d'esca, calare giù giù fin dentro alla peschiera.
L'esca la videro i pesci, e si gettarono. Nella mischia una trota riuscì a
mordere il verme: e subito prese a salire, a salire, uscì dall'acqua,
guizzando argentea, volò in alto, sopra le tavole imbandite e i carrelli
degli antipasti, sopra la fiamma azzurra dei fornelli per le «crépes
Suzette», e sparì nel cielo del finestrino. Marcovaldo aveva tirato la
canna con lo scatto e l'energia del provetto pescatore, tanto da far
finire il pesce alle sue spalle. La trota aveva appena toccato terra
quando il gatto si slanciò. Quel poco di vita che le restava la perse tra
i denti del soriano. Marcovaldo, che in quel momento aveva abbandonato la
lenza per correre ad acchiappare il pesce, se lo vide portar via di sotto
il naso, con l'amo e tutto. Fu lesto a mettere un piede sulla canna, ma lo
strappo era stato così forte che all'uomo restò solo la canna, mentre il
soriano scappava col pesce che si tirava dietro il filo della lenza.
Traditore d'un micio! Era sparito. Ma stavolta non gli scappava: c'era
quel lungo filo che lo seguiva e indicava la via che aveva preso. Pur
avendo perso di vista il gatto, Marcovaldo inseguiva l'estremità del filo:
ecco che scorreva su per un muro, scavalcava un poggiolo, serpeggiava per
un portone, veniva inghiottito in uno scantinato... Marcovaldo,
inoltrandosi in luoghi sempre più! gatteschi, arrampicandosi su
tettoie, scavalcando ringhiere, riusciva sempre a cogliere con lo sguardo
– magari un secondo prima che sparisse – quella mobile traccia che gli
indicava il cammino preso dal ladro. Ora il filo si snoda per il
marciapiede d'una via, in mezzo al traffico, e Marcovaldo correndogli
dietro è ormai quasi arrivato ad afferrarlo. Si butta a pancia a terra;
ecco, l'acchiappa! Era riuscito ad afferrare il capo del filo prima che
sgusciasse tra le sbarre di un cancello. Dietro un cancello
mezz'arrugginito e due pezzi di muro rincalzati da piante rampicanti,
c'era un piccolo giardino incolto, con in fondo una palazzina dall'aria
abbandonata. Un tappeto di foglie secche copriva il viale, e foglie secche
giacevano dappertutto sotto i rami dei due platani, formando addirittura
delle piccole montagne sulle aiole. Uno strato di foglie galleggiava
nell'acqua verde d'una vasca. Intorno s'elevavano edifici enormi,
grattacieli con migliaia di finestre, come tanti occhi puntati con
disapprovazione su quel quadratino di due alberi, poche tegole e tante
foglie gialle, sopravvissuto nel bel mezzo d'un quartiere di gran
traffico. E in questo giardino, appollaiati sui capitelli e sulle
balaustre, distesi sulle foglie secche delle aiole, arrampicati al tronco
degli alberi o alle grondaie, fermi sulle quattro zampe e con la coda a
punto interrogativo, seduti a lavarsi il muso, erano gatti tigrati, gatti
neri, gatti bianchi, gatti pezzati, soriani, angora, persiani, gatti di
famiglia e gatti randagi, gatti profumati e gatti tignosi. Marcovaldo capì
d'essere finalmente giunto nel cuore del regno dei gatti, nella loro isola
segreta. E, dall'emozione, quasi s'era dimenticato del suo pesce. Era
rimasto, il pesce, appeso per la lenza al ramo d'un albero, fuori portata
dei salti dei gatti; doveva essere caduto dalla bocca del suo rapitore in
qualche maldestra mossa forse per difenderlo dagli altri, forse per
sfoggiarlo come una preda straordinaria; il filo s'era impigliato e
Marcovaldo per quanti strattoni desse non riusciva a liberarlo. Una lotta
furiosa s'era intanto accesa tra i gatti, per raggiungere questo pesce
irraggiungibile, ossia per il diritto di tentare di raggiungerlo. Ognuno
voleva impedire agli altri di saltare: si lanciavano l'uno contro l'altro,
si azzuffavano per aria, roteavano avvinghiati, con sibili, lamenti,
sbuffi, atroci gnaulii, e finalmente una battaglia generale si scatenò in
un turbine di foglie secche crepitanti. Marcovaldo, dopo molti strappi
inutili, ora sentiva che la lenza s'era liberata, ma si guardava bene dal
tirare: la trota sarebbe cascata proprio in mezzo a quella mischia di
felini inferociti. Fu in quel momento che dall'alto dei muri del
giardino prese a cadere una strana pioggia: resche, teste di pesce, code,
e anche pezzi di polmone e coratella. Subito i gatti si distrassero dalla
trota appesa e si gettarono sui nuovi bocconi. Per Marcovaldo, era il
momento buono di tirare il filo e recuperare il suo pesce. Ma, prima che
avesse avuto la prontezza di muoversi, da una persiana del villino
uscirono due mani gialle e secche: una brandiva una forbice, l'altra una
padella. La mano con la forbice s'alza sopra la trota, la mano con la
padella si sporge sotto. La forbice taglia il filo, la trota cade nella
padella, mani forbice padella si ritirano, la persiana si chiude: tutto
nello spazio d'un secondo. Marcovaldo non capisce più niente. Anche lei
è amico dei gatti? – Una voce alle sue spalle lo fece voltare. Era
circondato di donnette, certune vecchie vecchie, con in testa cappelli
fuori moda, altre più giovani, con l'aria di zitelle, e tutte portavano in
mano o nella borsa cartocci con avanzi di carne o di pesce, e certune
anche un tegamino con del latte. – Mi aiuta a buttare questo pacchetto di
là del cancello, per quelle povere bestiole? Tutte le amiche dei gatti
convenivano a quell'ora attorno al giardino delle foglie secche per
portare da mangiare ai loro protetti. Ma, ditemi, perché stanno tutti
qua, questi gatti? – s'informò Marcovaldo. E dove vuole che vadano?
Solo questo giardino, c'è rimasto! Vengono qui i gatti anche dagli altri
quartieri, per un raggio di chilometri e chilometri. .. E anche gli
uccelli, – interloquì un'altra, – su questi pochi alberi, si son ridotti a
viverci a centinaia e centinaia... E le rane, stanno tutte in quella
vasca, e la notte gracidano, gracidano... Si sentono anche dal settimo
piano delle case intorno... Ma di chi è, questa villetta? – chiese
Marcovaldo. Adesso, davanti al cancello non c'erano soltanto quelle
donnette ma anche altra gente: il benzinaio di fronte, i garzoni di
un'officina, il postino, il verduriere, qualche passante. E tutti, donne e
uomini, non si fecero pregare a dargli risposta: ognuno voleva dire la
sua, come sempre quando si tratta d'un argomento misterioso e controverso.
È d'una marchesa, che ci abita, ma non si vede mai... Le hanno offerto
milioni e milioni, le imprese edilizie, per questo pezzettino di terreno,
ma non vuole vendere... Cosa volete che se ne faccia, dei milioni, una
vecchietta sola al mondo? Preferisce tenersi la sua casa, anche se va a
pezzi, pur di non essere obbligata a traslocare... È l'unica superficie
non costruita nel centro della città ... Aumenta di valore ogni anno ... Le
hanno fatto delle offerte ... Offerte soltanto? Anche intimidazioni,
minacce, persecuzioni ... Sapeste, gli impresari E lei resiste, resiste,
da anni... È una santa... Senza di lei dove andrebbero quelle povere
bestiole? Figuriamoci se le importa qualcosa delle bestiole, a quella
vecchia spilorcia! L'avete mai vista dar loro qualcosa da mangiare? Ma
cosa volete che dia ai gatti, se non ha niente per sé? È l'ultima
discendente d'una famiglia decaduta! Li odia, i gatti! L'ho vista
rincorrerli a ombrellate! Perché le calpestavano i fiori delle aiole!
Ma di che fiori parlate? Questo giardino io l'ho sempre visto pieno
d'erbacce! Marcovaldo capì che sulla vecchia marchesa le opinioni erano
profondamente divise: chi la vedeva come una creatura angelica, chi come
un'avara e un'egoista. E anche con gli uccellini: mai che dia loro una
briciola di pane! Da l'ospitalità: vi sembra poco? Tal quale come le
zanzare, volete dire. Vengono tutte di qua, da quella vasca. D'estate le
zanzare ci mangiano vivi, tutto per colpa di quella marchesa! E i topi?
È una miniera di topi, questa villa. Sotto le foglie secche hanno le loro
tane, e di notte escono ... Per quel che riguarda i topi, ci pensano i
gatti ... Oh, i vostri gatti! Se dobbiamo fidarci di loro ... Perché?
Cos'ha da dire contro i gatti? Qui la discussione degenerò in una lite
generale. Dovrebbe intervenire l'autorità: sequestrare la villa! –
gridava uno. Con che diritto? – protestava un altro. In un quartiere
moderno come il nostro, una topaia così ... Dovrebbe essere proibito ...
Ma se io il mio appartamento l'ho scelto proprio perché ha la vista su
questo poco di verde... Macché verde! Pensate al bel grattacielo che
potrebbero farci! Anche Marcovaldo avrebbe avuto da dire la sua, ma non
trovava il momento adatto. Finalmente, tutto d'un fiato, esclamò: La
marchesa mi ha rubato una trota! La notizia inaspettata diede nuovi
argomenti ai nemici della vecchia, ma i difensori se ne servirono come
d'una prova dell'indigenza in cui versava la sfortunata nobildonna. Gli
uni e gli altri furono d'accordo sul fatto che Marcovaldo dovesse andare a
bussare alla sua porta e a chiederle ragione. Il cancello non si capiva
se fosse chiuso a chiave o aperto: comunque, s'apriva spingendo, con un
lamentoso cigolìo. Marcovaldo si fece largo tra le foglie e i gatti, salì
i gradini del portico, bussò forte all'uscio. A una finestra (la stessa
da cui s'era affacciata la padella) si alzò lo scuro della persiana e in
quell'angolo si vide un occhio rotondo e turchino, una ciocca dal colore
indefinibile dei capelli tinti, e una mano secca secca. Una voce che
diceva: – Chi è? Chi bussa? – arrivò insieme a una nuvola d'odore d'olio
fritto. Io, signora marchesa, sarei quello della trota, –spiegò
Marcovaldo, – non per disturbarla, era solo per dirle che la trota, nel
caso lei non lo sapesse, quel gatto l'aveva rubata a me, che sarei quello
che l'aveva pescata, tant'è vero che la lenza... I gatti, sempre i
gatti! – fece la marchesa, nascosta dietro la persiana, con una voce acuta
e un po' nasale. – Tutte le mie maledizioni vengono dai gatti! Nessuno sa
cosa vuoi dire! Prigioniera notte e giorno di quelle bestiacce! E con
tutta l'immondizia che la gente butta da dietro i muri, per farmi
dispetto! Mala mia trota... La sua trota!
Cosa vuole che ne sappia della sua trota! – e la voce della
marchesa diventava quasi un grido, come volesse coprire lo sfrigolìo
d'olio in padella che usciva dalla finestra insieme all'odorino di pesce
fritto. – Come posso capire qualcosa con tutto quel che mi piove in casa?
Sì, ma la trota l'ha presa o non l'ha presa? Con tutti i danni che
subisco per via dei gatti! Ah, vorrei proprio vedere! Io non rispondo di
nulla! Dovessi dire io, quello che ho perso! Coi gatti che mi occupano da
anni casa e giardino! La mia vita in balia di queste bestie! Valli a
trovare, i proprietari, per farti rifondere i danni! Danni? Una vita
distrutta: prigioniera qui, senza poter muovere un passo! Ma, scusi,
chi la obbliga a restare? Dallo spiraglio della persiana appariva ora
un occhio tondo e turchino, ora una bocca con due denti sporgenti; per un
momento si vide tutto il viso e a Marcovaldo sembrò confusamente un muso
di gatto. Loro, mi tengono prigioniera, loro, i gatti! Oh, se me ne
andrei! Quanto darei per un appartamentino tutto mio, in una casa moderna,
pulita! Ma non posso uscire... Mi seguono, si mettono di traverso ai miei
passi, mi fanno inciampare! – La voce divenne un sussurro, come confidasse
un segreto. – Hanno paura che venda il terreno... Non mi lasciano... non
permettono... Quando vengono gli impresari a propormi un contratto,
dovrebbe vederli, i gatti! Si mettono di mezzo, unghie, hanno fatto
scappare anche un notaio! Una volta avevo il contratto qui, stavo per
firmare, e sono piombati dalla finestra, hanno rovesciato il calamaio,
strappato tutti i fogli... Marcovaldo si ricordò tutt'a un tratto
dell'ora, del magazzino, del caporeparto. S'allontanò in punta di piedi
sulle foglie secche, mentre la voce continuava a uscire di tra le stecche
della persiana avvolta in quella nube come d'olio in padella: Mi hanno
fatto anche un graffio... Ho ancora il segno... Qui abbandonata in balia
di questi demoni... Venne l'inverno. Una fioritura di fiocchi bianchi
guarniva i rami e i capitelli e le code dei gatti. Sotto la neve le foglie
secche si sfacevano in poltiglia. I gatti li si vedeva poco in giro, le
amiche dei gatti meno ancora; i pacchetti di resche venivano consegnati
solo al gatto che si presentava a domicilio. Nessuno, da un bel po', aveva
più visto la marchesa. Dal comignolo del villino non usciva più fumo.
Un giorno di nevicata, nel giardino erano tornati tanti gatti come fosse
primavera, e miagolavano come in una notte di luna. I vicini capirono che
era successo qualcosa: andarono a bussare alla porta della marchesa. Non
rispose: era morta. A primavera, al posto del giardino un'impresa di
costruzioni aveva impiantato un gran cantiere. Le scavatrici erano scese a
gran profondità per far posto alle fondamenta, il cemento colava nelle
armature di ferro, un'altissima gru porgeva sbarre agli operai che
costruivano le incastellature. Ma come si faceva a lavorare? I gatti
passeggiavano su tutte le impalcate, facevano cadere mattoni e secchi di
calcina, s'azzuffavano in mezzo ai mucchi di sabbia. Quando s'andava per
innalzare un'armatura si trovava un gatto appollaiato in cima che sbuffava
inferocito. Mici più sornioni s'arrampicavano sulle spalle dei muratori
con l'aria di voler fare le fusa e non c'era verso di scacciarli. E gli
uccelli continuavano a fare il nido in tutti i tralicci, il casotto della
gru sembrava una voliera ... E non si poteva prendere un secchio d'acqua
senza trovarlo pieno di ranocchi che gracidavano e saltavano ...
marcovaldo - le stagioni in città |
LE CITTA'
INVISIBILI
- anche in audiolibro
Questo libro nasce un pezzetto per volta, a intervalli anche lunghi, come poesie
che mettevo sulla carta, seguendo le più varie ispirazioni
Ecco, dunque, materializzarsi su carta evocazioni di città tristi e di città
contente, città dal cielo stellato e città piene di spazzatura, insomma spazi,
sensazioni, genti diverse e loro passioni, fissate solo su cartelle, come un
diario a fogli liberi.
per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti.
occorre scartare tutte le idee ricevute le immagini precostituite che ingombrano
il campo visivo e la capacità di comprendere.
italialibri.net
-
Le città invisibili - Wikipedia - fb/rai5
www.archdaily.com/intricate-illustrations-of-italo-calvinos-invisible-cities
www.lacittadiisaura.it/isaura-narrata-da-calvinoe-la-nostra
https://thevision.com/cultura/citta-invisibili-calvino
www.facebook.com/watch
È l'occhio di chi la guarda che dà ad ogni città la sua
forma
.
. le citta invisibili al salone del libro
torino 2016
- MOLTISSIME LE INIZIATIVE E LE MOSTRE
INDETTE IN SUO OMAGGIO IN ITALIA ED ALL'ESTERO -
LE HO CHIAMATE TUTTE CON NOMI DI DONNA
NOMI MAGARI CON QUALCHE RISONANZA ORIENTALE
DI IMPERATRICI BIZANTINE PER ESEMPIO O NOMI MEDIEVALI.
MA I NOMI NON IMPORTANO.
IC
presentazione : Nelle Città
invisibili non si trovano città riconoscibili. Sono tutte città inventate;
le ho chiamate ognuna con un nome di donna; il libro è fatto di brevi
capitoli, ognuno dei quali dovrebbe offrire uno spinto di riflessione che
vale per ogni città o per la città in generale. Il libro è nato un pezzetto
per volta, a intervalli anche lunghi, come poesie che mettevo sulla carta,
seguendo le più varie ispirazioni. Io nello scrivere vada a serie: tengo
tante cartelle dove metto le pagine che mi capita di scrivere, secondo le
idee che mi girano per la testa, oppure soltanto appunti di cose che vorrei
scrivere. Ho una cartella per gli oggetti, una cartella per gli animali, una
per le persone, una cartella per i personaggi storici e un’altra per gli
eroi della mitologia; ho una cartella sulle quattro stagioni e una sui
cinque sensi; in una raccolgo pagine sulle città e i paesaggi della mia vita
e in un’altra città immaginarie, fuori dallo spazio e dal tempo. Quando una
cartella comincia a riempirsi di fogli, comincio a pensare al libro che ne
posso tirar fuori. Così mi sono portato dietro questo libro delle città
negli ultimi anni, scrivendo saltuariamente, un pezzetto per volta, passando
attraverso fasi diverse. Per qualche tempo mi veniva da immaginare solo
città tristi e per qualche tempo solo città contente; c’è stato un periodo
in cui paragonavo le città al cielo stellato, e in un altro periodo mi
veniva sempre da parlare della spazzatura che dilaga fuori dalle città ogni
giorno. Era diventato un po’ come un diario che seguiva i miei umori e le
mie riflessioni; tutto finiva per trasformarsi in immagini di città: i libri
che leggevo, le esposizioni d’arte che visitavo, le discussioni con gli
amici.
lebellepagine.it - lapennanelcassetto.wordpress.com
|
Matt Kish
Joe Kuth
Leighton Connor
progetto Seeing
Calvino - Vedere Calvino
su Tumblr da aprile 2014
|
la città dei
gatti e la città degli
uomini
coesistono una dentro
l'altra
ma non sono la stessa città
|
Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone
tutte le città hanno degli angoli felici. basta riconoscerli
Il pattume di Leonia a
poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero
premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai d’altre città, che
anch’esse respingono lontano da sé montagne di
rifiuti . Forse il
mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura,
ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I
confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti
dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano
.
...
Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la
città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie
fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco
sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di
questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli
avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d'un lampione e i piedi
penzolanti d'un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera
di fronte e i festoni che impavesano il percorso del corteo nuziale della
regina; l'altezza di quella ringhiera e il salto dell'adultero che la scavalca
all'alba; l'inclinazione d'una grondaia e l'incedervi d'un gatto che si infila
nella stessa finestra; la linea di tiro della nave cannoniera apparsa
all'improvviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi
delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si
raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell'usurpatore,
che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lì sul
molo. Di quest'onda che rifluisce dai ricordi la città s'imbeve come una spugna
e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il
passato di Zaira.
Ma la città non dice il suo passato, lo contiene
come le linee d'una mano, scritto negli spigoli
delle vie, nelle griglie delle finestre, negli
scorrimano delle scale, nelle antenne dei
parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni
segmento rigato a sua volta di graffi,
seghettature, intagli, svirgole.
città invisibili - le città e la memoria 3.
zaira
c'è un momento in cui ogni città deve ritrovare le proprie divinità
dopo aver vissuto il massimo smarrimento
È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche
il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo
rovescio, una paura.
Le città come i sogni
sono costruite di desideri e di paure,
anche se il filo del loro discorso è segreto,
le loro regole assurde,
le prospettive ingannevoli;
e ogni cosa ne nasconde un’altra .
Io non ho desideri né paure, - dichiarò il Kan –
i miei sogni sono composti o dalla mente o
dal caso. Anche le città credono di essere
opera della mente o del caso, ma né l’una
né l’altro bastano a tener su le loro mura.
D’una città non godi le sette o le settantasette
meraviglie ma la risposta che dà a una tua
domanda - O la domanda che ti pone
obbligandoti a rispondere, come Tebe per bocca
della Sfinge.
marco polo alla
corte di kublai khan - circa 1280
.
Les villes comme les rêves
sont faites de désirs et de peurs, même si le
fil de leur discours est secret, leurs règles
absurdes, leurs perspectives trompeuses ; et
toute chose en cache une autre. — Moi, je n’ai
ni désirs ni peurs, déclara le Khan, et mes
rêves sont composés soit par mon esprit soit par
le hasard. — Les villes aussi se croient l’ouvre
de l’esprit ou du hasard, mais ni l’un ni
l’autre ne suffisent pour faire tenir debout
leurs murs. Tu ne jouis pas d’une ville à cause
de ses sept ou soixante-dix-sept merveilles,
mais de la réponse qu’elle apporte à l’une de
tes questions.
les villes invisibles
...
I gatti di Smeraldina, i
ladri, gli amanti clandestini si spostano per
vie piú alte e discontinue, saltando da un tetto
all’altro, calandosi da un’altana a un verone,
contornando grondaie con passo da funamboli. Piú
in basso, i topi corrono nel buio delle cloache
l’uno dietro la coda dell’altro insieme ai
congiurati e ai contabbandieri: fanno capolino
da tombini e da chiaviche, svicolano per
intercapedini e chiassuoli, trascinano da un
nascondiglio all’altro croste di formaggio,
mercanzie proibite, barili di polvere da sparo,
attraversano la compattezza della città
traforata dalla raggera dei cunicoli
sotterranei.
...
Isaura, città dai mille
pozzi,
si presume sorga sopra un profondo lago
sotterraneo. Dappertutto dove gli abitanti
scavando nella terra lunghi buchi verticali sono
riusciti a tirar su dell’acqua, fin là e non
oltre si è estesa la città: il suo perimetro
verdeggiante ripete quello delle rive buie del
lago sepolto, un paesaggio invisibile condiziona
quello visibile, tutto ciò che si muove al sole
è spinto dall’onda che batte chiusa sotto il
cielo calcareo della roccia. Di conseguenza
religioni di due specie si danno a Isaura. Gli
dei della città, secondo alcuni, abitano nella
profondità, nel lago nero che nutre le vene
sotterranee. Secondo altri gli dei abitano nei
secchi che risalgono appesi alla fune quando
appaiono fuori della vera dei pozzi, nelle
carrucole che girano, negli argani delle norie,
nelle leve delle pompe, nelle pale dei mulini a
vento che tirano su l’acqua delle trivellazioni,
nei castelli di traliccio che reggono
l’avvitarsi delle sonde, nei serbatoi pensili
sopra i tetti in cima a trampoli, negli archi
sottili degli acquedotti, in tutte le colonne
d’acqua, i tubi verticali, i saliscendi, i
troppopieni, su fino alle girandole che
sormontano le aeree impalcature d’Isaura, città
che si muove tutta verso l’alto.
...
Riconoscente la Luna ha
dato alla città di Lalage un privilegio più
raro: crescere in leggerezza .
...
Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che
ancora si intravvedono, ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai
intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane.
...
Arrivando a ogni
nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più
d’avere : l’estraneità di
ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e
non posseduti . Marco entra in una città;
vede qualcuno in una piazza vivere una vita o un istante che potevano essere
suoi - al posto di quell’uomo ora avrebbe potuto esserci
lui se si fosse fermato nel tempo tanto tempo prima, oppure se tanto tempo prima
a un crocevia invece di prendere una strada avesse preso quella opposta e dopo
un lungo giro fosse venuto a trovarsi al posto di quell’uomo in quella piazza .
Ormai, da quel suo passato vero o ipotetico, lui è
escluso - non può fermarsi - deve
proseguire fino a un’altra città dove lo aspetta un altro suo passato,
o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e
ora è il presente di qualcun altro . I futuri non realizzati sono solo rami del
passato : rami secchi .
...
L'occhio non vede cose ma figure di cose che
significano altre cose .
...
È il momento disperato in cui si scopre che quest'impero che ci era sembrato la
somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua
corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo,
che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina.
...
Perché
indugi
in
malinconie
inessenziali ?
Perchè mi manca l'essenziale accanto a me .
.
Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo
d’un paesaggio incongruo,
un affiorare di luci nella nebbia,
il dialogo di due passanti che s’incontrano nel
viavai, per
pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta,
fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti
separati da intervalli,
di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie
.
...
le città si
dividono
in quelle che continuano attraverso gli anni
e le mutazioni a dare la loro forma ai loro desideri
e quelle i cui desideri o riescono a cancellare la città
o ne sono cancellati .
...
A Cloe, grande
città, le persone che passano per le vie non si
conoscono.
Al
vedersi
immaginano mille cose l'uno dell'altro, gli
incontri che potrebbero avvenire tra loro, le
conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi.
Ma
nessuno saluta nessuno, gli sguardi s'incrociano
per un secondo e poi sfuggono, cercando altri
sguardi, non
si fermano.
...
All'uomo che cavalca lungamente per terreni selvatici viene desiderio d’una
città. Finalmente giunge a
Isidora, città dove i
palazzi hanno scale a chiocciola incrostate di chiocciole marine, dove si
fabbricano a regola d’arte cannocchiali e violini, dove quando il forestiero è
incerto tra due donne ne incontra sempre una terza, dove le lotte dei galli
degenerano in risse sanguinose tra gli scommettitori. A tutte queste cose egli
pensava quando desiderava una città. Isidora è dunque la città dei suoi sogni:
con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in
tarda età. Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la
gioventù; lui è seduto in fila con loro.
I desideri sono già ricordi.
...
Partendosi di là e andando tre giornate verso levante,
l'uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d'argento, statue in bronzo
di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo
d'oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viaggiatore
già conosce per averle viste anche in altre città. Ma la proprietà di questa è
che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate s'accorciano e le
lampade multicolori s'accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e
da una terrazza una voce di donna grida: uh! gli viene da invidiare quelli
che ora pensano d'aver già vissuto una sera uguale a questa e d'esser stati
quella volta felici.
...
Al di là di sei fiumi e tre catene di montagne sorge
Zora, città che chi
l'ha vista una volta non può piú dimenticare. Ma non perché essa lasci come
altre città memorabili un'immagine fuor del comune nei ricordi. Zora ha la
proprietà di restare nella memoria punto per punto, nella successione delle vie,
e delle case lungo le vie, e delle porte e delle finestre nelle case, pur non
mostrando in esse bellezze o rarità particolari. Il suo segreto è il modo in cui
la vista scorre su figure che si succedono come in una partitura musicale nella
quale non si può cambiare o spostare una sola nota. L'uomo che sa a memoria
com'è fatta Zora, la notte quando non può dormire immagina di camminare per le
sue vie e ricorda l'ordine in cui si succedono l'orologio di rame, la tenda a
strisce del barbiere, lo zampillo dai nove schizzi, la torre di vetro
dell'astronomo, la edicola del venditore di cocomeri, la statua dell'eremita e
del leone, il bagno turco, il caffè all'angolo, la traversa che va al porto.
Questa città che non si cancella dalla mente e come un'armatura o reticolo nelle
cui caselle ognuno può disporre le cose che vuole ricordare: nomi di uomini
illustri, virtù, numeri, classificazioni vegetali e minerali, date di battaglie,
costellazioni, parti del discorso. Tra ogni nozione e ogni punto dell'itinerario
potrà stabilire un nesso d'affinità o di contrasto che serva da richiamo
istantaneo alla memoria. Cosicché gli uomini piú sapienti del mondo sono quelli
che sanno a mente Zora.
Ma inutilmente mi sono messo in viaggio
per visitare la città: obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per
essere meglio ricordata, Zora languì, si disfece e scomparve.
La Terra l'ha dimenticata.
...
A un imperatore
melanconico, un viaggiatore visionario racconta
di città impossibili . Quello
che sta a cuore al mio Marco Polo è scoprire le
ragioni segrete che hanno portato gli uomini a
vivere nelle città, ragioni che potranno valere
al di là di tutte le crisi .
Le città sono un insieme
di tante cose : di memoria,
di desideri, di segni d'un linguaggio; le città
sono luoghi di scambio, ma questi scambi non
sono soltanto scambi di merci, sono scambi di
parole, di desideri, di ricordi .
...
Avanzi col capo voltato sempre all’indietro ?
- oppure : Ciò che vedi è sempre
alle tue spalle ? - o meglio : Il
tuo viaggio si svolge solo nel passato ?
...
Succede pure che,
rasentando i compatti
muri di Marozia, quando meno t’aspetti
vedi aprirsi uno spiraglio e apparire una città
diversa, che dopo un istante è già sparita.
Forse tutto sta a sapere quali parole
pronunciare, quali gesti compiere, e in quale
ordine e ritmo, oppure basta lo sguardo la
risposta il cenno di qualcuno, basta che
qualcuno faccia qualcosa per il solo piacere di
farla, e perché il suo piacere diventi piacere
altrui: in quel momento
tutti gli spazi cambiano, le altezze, le
distanze, la città si trasfigura, diventa
cristallina, trasparente come una libellula.
Ma bisogna che tutto capiti come per caso, senza
dargli troppa importanza, senza la pretesa di
star compiendo una operazione decisiva, tenendo
ben presente che da un momento all’altro la
Marozia di prima tornerà a saldare il suo
soffitto di pietra ragnatele e muffa sulle
teste.
...
Se ti dico che la citta cui tende il mio viaggio e discontinua nello spazio e
nel tempo, ora piu rada ora piu densa, tu non devi credere che si possa smettere
di cercarla ...
Dice: – Tutto è inutile,
se l’ultimo approdo non può essere che la città
infernale, ed è là infondo che, in una spirale
sempre più stretta, ci risucchia la corrente.
E Polo:
– L’inferno dei viventi,
non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello
che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i
giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci
sono per non soffrirne. Il primo
riesce facile a molti: accettare l’inferno e
diventarne parte fino al punto di non vederlo
più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione
e apprendimento continui: cercare e saper
riconoscere chi e che cosa, in mezzo
all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e
dargli spazio.
The
hell of the living
is not something that will be: if there is one,
it is what is already here, the hell where we
live every day, that we form by being together.
There are two ways to escape suffering it. The
first is easy for many: accept the hell and
become such a part of it that you can no longer
see it. The second is risky and demands constant
vigilance and learning: seek and be able to
recognize who and what, in the midst of the
hell, are not hell, then make them endure, give
them space.
the invisible cities
- 1972
...
A che ti serve, allora, tanto viaggiare ? ... e la
risposta di Marco : L'altrove è uno specchio in negativo . Il
viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e
che non avrà .
...
Che senso ha il vostro costruire ?
domanda. Qual è il fine d'una città in costruzione se non una città ? Dov'è il
piano che seguite, il progetto ?
Te lo mostreremo appena termina la giornata; ora non possiamo interrompere -
rispondono.
Il lavoro cessa al tramonto . Scende la notte sul cantiere. E’ una notte
stellata . - Ecco il progetto - dicono.
...
Marco Polo
descrive un ponte, pietra per pietra
- Ma qual è la pietra che
sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.
- Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra, - risponde Marco, - ma
dalla linea dell'arco che esse formano.
Kublai Kan rimase silenzioso, riflettendo. Poi soggiunse: - Perché mi parli
delle pietre? È solo dell'arco che mi importa.
Polo risponde: - Senza pietre non c'è arco.
le città invisibili 1972
...
Il fine d'ogni
partita è una vincita o una perdita :
ma di cosa ? Qual era la vera posta
? Allo scacco matto, sotto il piede
del re sbalzato via dalla mano del vincitore,
resta un quadrato nero o bianco . A forza
di scorporare le sue conquiste per ridurle
all'essenza, Kublai era arrivato all'operazione
estrema : la conquista definitiva,
di cui i multiformi tesori dell'impero non erano
che involucri illusori, si riduceva a un
tassello di legno piallato : il
nulla ...
...
Non c'è città più di
Eusapia
propensa a godere la vita e a sfuggire gli
affanni. E perché il salto dalla vita alla morte
sia meno brusco, gli abitanti hanno costruito
una copia identica della loro città sottoterra.
I cadaveri, seccati in modo che ne resti lo
scheletro rivestito dipelle gialla, vengono
portati là sotto a continuare le occupazioni di
prima. Di queste, sono i momenti spensierati ad
avere la preferenza: i più di loro vengono
seduti attorno a tavole imbandite, o atteggiati
in posizione di danza o nel gesto di suonare
trombette. Ma pure tutti i commerci e i mestieri
dell' Eusapia dei vivi sono all'opera
sottoterra, o almeno quelli cui i vivi hanno
adempiuto con più soddisfazione che fastidio:
l'orologiaio, in mezzo a tuttigli orologi fermi
della sua bottega, accosta un'orecchia
incartapecorita a una pendolascordata; un
barbiere insapona con il pennello secco l'osso
degli zigomi d'un attore mentre questi ripassa
la parte scrutando il copione con le occhiaie
vuote; una ragazza dal teschio ridente munge una
carcassa di giovenca. Certo molti sono i vivi
che domandano per dopo morti un destino diverso
da quello che già toccò loro: la necropoli è
affollata di cacciatori di leoni, mezzesoprano,
banchieri, violinisti, duchesse, mantenute,
generali, più di quanti mai ne contò città
vivente. L'incombenza di accompagnare giù i
morti e sistemarli al posto voluto è affidata a
una confraternita di incappucciati. Nessun altro
ha accesso all'Eusapia dei morti e tutto quello
che si sa di laggiù si sa da loro. Dicono che la
stessa confraternita esiste tra i morti e che
non manca di dar loro una mano; gli
incappucciati dopo morti continueranno nello
stesso ufficio anche nell'altra Eusapia;
lasciano credere che alcuni di loro siano già
morti e continuino a andare su e giù. Certo,
l'autorità di questa congregazione sull'Eusapia
dei vivi è molto estesa. Dicono che ogni volta
che scendono trovano qualcosa di cambiato
nell'Eusapia di sotto; i morti apportano
innovazione alla loro città; non molte, ma certo
frutto di riflessione ponderata, non di capricci
passeggeri. Da un anno all'altro, dicono,
l'Eusapia dei morti non si riconosce. E i vivi,
per non essere da meno, tutto quello che gli
incappucciati raccontano delle novità dei morti,
vogliono farlo anche loro. Così l'Eusapia dei
vivi ha preso a copiare la sua copia
sotterranea. Dicono che questo non è solo adesso
che accade: in realtà sarebbero stati i morti a
costruire l'Eusapia di sopra a somiglianza della
loro città. Dicono che nelle due città gemelle
non ci sia più modo di sapere quali sono i vivi
e quali i morti. eusapia - città
invisibili
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appunti per le città invisibili di italo calvino
ANASTASIA
DI CAPO A TRE GIORNATE, ANDANDO VERSO
MEZZODÌ, L'UOMO S'INCONTRA AD ANASTASIA, CITTÀ BAGNATA DA CANALI CONCENTRICI E
SORVOLATA DA AQUILONI. DOVREI ORA ENUMERARE LE MERCI CHE QUI SI COMPRANO CON
VANTAGGIO: AGATA ONICE CRISOPAZIO E ALTRE VARIETÀ DI CALCEDONIO; LODARE LA CARNE
DEL FAGIANO DORATO CHE QUI SI CUCINA SULLA FIAMMA DI LEGNO DI CILIEGIO
STAGIONATO E SI COSPARGE CON MOLTO ORIGANO; DIRE DELLE DONNE CHE HO VISTO FARE
IL BAGNO NELLA VASCA D'UN GIARDINO E CHE TALVOLTA INVITANO - SI RACCONTA - IL
PASSEGGERO A SPOGLIARSI CON LORO E A RINCORRERLE NELL'ACQUA. MA CON QUESTE
NOTIZIE NON TI DIREI LA VERA ESSENZA DELLA CITTÀ: PERCHÉ MENTRE LA DESCRIZIONE
DI ANASTASIA NON FA CHE RISVEGLIARE I DESIDERI UNO PER VOLTA PER OBBLIGARTI A
SOFFOCARLI, A CHI SI TROVA UN MATTINO IN MEZZO AD ANASTASIA I DESIDERI SI
RISVEGLIANO TUTTI INSIEME E TI CIRCONDANO. LA CITTÀ TI APPARE COME UN TUTTO IN
CUI NESSUN DESIDERIO VA PERDUTO E DI CUI TU FAI PARTE, E POICHÉ ESSA GODE TUTTO
QUELLO CHE TU NON GODI, A TE NON RESTA CHE ABITARE QUESTO DESIDERIO ED ESSERNE
CONTENTO. TALE POTERE, CHE ORA DICONO MALIGNO ORA BENIGNO, HA ANASTASIA, CITTÀ
INGANNATRICE: SE PER OTTO ORE AL GIORNO TU LAVORI COME TAGLIATORE D'AGATE ONICI
CRISOPAZI, LA TUA FATICA CHE DÀ FORMA AL DESIDERIO PRENDE DAL DESIDERIO LA SUA
FORMA, E TU CREDI DI GODERE PER TUTTA ANASTASIA
MENTRE NON NE SEI CHE LO SCHIAVO.
le città e il desiderio - II
.
Col crescere di un’intesa tra loro
le mani presero ad
assumere atteggiamenti stabili, che corrispondevano ognuno ad un movimento
dell’animo, nel loro alternarsi e ripetersi. E mentre il vocabolario delle cose
si rinnovava con i campionari delle mercanzie, il repertorio dei commenti muti
tendeva a chiudersi e a fissarsi. Anche il piacere a ricorrervi diminuiva in
entrambi; nelle loro conversazioni restavano il più del tempo zitti e immobili.
dialoghi tra marco polo e il gran kan alla ricerca di un linguaggio universale
tra gesti e parole fino al silenzio e all'immobilità
.
.
.
.
Hong Kong architect William Lim and the Italo
Calvino novel that changed his life, Invisible
Cities
I
read Invisible Cities when I was in my first
year of architecture school, at Cornell
University, in the United States, in about 1976.
I was maybe 18.
It’s almost like a bible for architecture
students. It wasn’t
part of the course, but it was something
everyone had to read, so I bought a copy.
It’s
a very unusual book.
I was used to reading novels, but the structure
of this book is completely different. It’s
extremely conceptual and very architectural in
its structure. We deal with a
lot of concepts in architecture and almost every
project needs to have a theme running through
it. And
each chapter of this book has a concept – the
strong character of a city that you’ll remember.
richard lord -
scmp.com/hong-kong-architect-william-lim-and-italo-calvino
- 2018
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L'ACQUA NEL
CESTELLO
C'ERA UNA MADRE VEDOVA CHE SPOSÒ UN PADRE VEDOVO E OGNUNO DEI DUE
AVEVA UNA FIGLIA. LA MADRE VOLEVA BENE ALLA SUA E ALL'ALTRA NO. LA SUA LA
MANDAVA A PRENDERE L'ACQUA CON LA BROCCA, QUELL'ALTRA COL CESTELLO.
MA L'ACQUA DEL CESTELLO EVIDENTEMENTE USCIVA E LA MATRIGNA PICCHIAVA TUTTI I
GIORNI QUELLA POVERA RAGAZZA.
UN GIORNO, MENTRE ANDAVA A PRENDERE L'ACQUA, IL CESTELLO LE ANDÒ GIÙ PER IL
TORRENTE. LEI SI MISE A CORRERE E A CHIEDERE A TUTTI:
L'AVETE VISTO PASSARE IL MIO CESTELLO? E TUTTI LE RISPONDEVANO:
VA' PIÙ GIÙ CHE LO TROVI.
ANDANDO GIÙ, TROVÒ UNA VECCHIA CHE SI SPULCIAVA, SEDUTA SU UNA PIETRA IN
MEZZO AL TORRENTE E LE CHIESE:
L'AVETE VISTO IL MIO CESTELLO?
VIENI QUA - LE DISSE LA VECCHIA, CHE IL TUO CESTELLO TE L 'HO TROVATO
IO. INTANTO, FAMMI UN FAVORE, CERCAMI UN PO' CHE COSA HO GIÙ PER QUESTE
SPALLE CHE MI PIZZICA. CHE COSA HO?
LA RAGAZZA AMMAZZAVA BESTIOLINE A PIÙ NON POSSO, MA PER NON MORTIFICARE LA
VECCHIA DICEVA: PERLE E
DIAMANTI.
E PERLE E DIAMANTI AVRAI - RISPOSE LA VECCHIA. E DOPO CHE FU BEN SPULCIATA:
VIENI CON ME - LE DISSE E LA PORTÒ ALLA SUA CASA CHE ERA UN MUCCHIO
DI SPAZZATURA.
FAMMI UN PIACERE, BRAVA RAGAZZA: RIFAMMI IL LETTO. CHE COSA CI TROVI NEL MIO
LETTO?
ERA UN LETTO CHE CAMMINAVA DA SOLO, TANTE BESTIE C'ERANO, MA LA RAGAZZA PER
NON ESSERE SCORTESE RISPOSE: ROSE E GELSOMINI.
E ROSE E GELSOMINI AVRAI. FAMMI UN ALTRO PIACERE
ADESSO, SPAZZAMI LA CASA. CHE CI TROVI DA SPAZZARE? LA RAGAZZA DISSE:
RUBINI E CHERUBINI.
E RUBINI E CHERUBINI AVRAI.
POI APERSE UN ARMADIO CON OGNI SORTA DI
VESTITI E LE DISSE: VUOI UN VESTITO DI SETA O
UN VESTITO DI PERCALLE? E LA RAGAZZA:
-LO SONO POVERA, SA, MI DIA UN VESTITO DI PERCALLE.
E IO TE LO DARÒ DI SETA.
E LE DIEDE UNA BELLISSIMA VESTE DI SETA. POI APERSE UNO SCRIGNETTO E LE
DISSE: VUOI ORO O VUOI CORALLO? E LA RAGAZZA:
MI DIA CORALLO.
E IO TI DO ORO - E LE INFILÒ UNA COLLANA D'ORO. -
VUOI ORECCHINI DI CRISTALLO O DI DIAMANTE? - DI CRISTALLO.
E IO TE LI DO DI DIAMANTE - E LE APPESE I DIAMANTI
ALLE ORECCHIE. POI LE DISSE: CHE TU SIA
BELLA, CHE I TUOI CAPELLI SIANO D'ORO E QUANDO TI PETTINI TI CADANO ROSE E
GELSOMINI DA UNA PARTE E PERLE E RUBINI DALL'ALTRA. ADESSO VA' A CASA, E
QUANDO SENTI RAGLIARE L'ASINO NON TI VOLTARE MA QUANDO SENTI CANTARE IL
GALLO VOLTATI.
LA RAGAZZA ANDÒ VERSO CASA; RAGLIÒ L'ASINO E NON SI VOLTÒ; E LE SPUNTÒ UNA
STELLA SULLA FRONTE.
LA MATRIGNA LE DISSE: E CHI TI HA DATO
TUTTA QUESTA ROBA?
MAMMA MIA, ME L'HA DATA UNA VECCHIA CHE AVEVA TROVATO IL MIO CESTELLO,
PERCHÉ IO LE HO AMMAZZATO LE PULCI.
ADESSO SÌ CHE TI VOGLIO BENE - DISSE LA MATRIGNA.
D'ORA IN AVANTI ANDRAI TU PER ACQUA CON LA BROCCA E TUA SORELLA ANDRÀ COL
CESTELLO. E A SUA FIGLIA, PIANO: VA' A
PRENDERE L'ACQUA COL CESTELLO, LASCIALO ANDARE GIÙ PER IL TORRENTE, E VAGLI
DIETRO: POTESSI TROVARE ANCHE TU QUELLO CHE HA TROVATO TUA SORELLA!
LA SORELLASTRA ANDÒ, BUTTÒ IL CESTELLO IN ACQUA E POI LO RINCORSE. IN GIÙ
TROVÒ QUELLA VECCHIA.
AVETE VISTO PASSARE IL MIO CESTELLO?
VIENI QUA CHE L'HO IO. CERCAMI CHE COSA HO GIÙ PERLE SPALLE CHE MI PIZZICA.
LA RAGAZZA COMINCIÒ AD AMMAZZARE BESTIOLINE: - CHE
COSA HO?
E LEI: PULCI E SCABBIA.
E PULCI E SCABBIA AVRAI.
LA PORTÒ A RIFARE IL LETTO. CHE COSA CI TROVI?
- CIMICI E PIDOCCHI. - E CIMICI E PIDOCCHI
AVRAI.
LE FECE SPAZZARE LA CASA. COSA CI TROVI?
UN SUDICIUME CHE FA SCHIFO! E UN
SUDICIUME CHE FA SCHIFO AVRAI.
POI LE CHIESE SE VOLEVA UN VESTITO DI SACCO O UN VESTITO DI SETA.
VESTITO DI SETA! -E IO TE LO DO DI
SACCO.
-COLLANA DI PERLE O COLLANA DI SPAGO?
-PERLE! E IO TI DO
SPAGO.
ORECCHINI D'ORO O ORECCHINI DI PATACCA?
D'ORO. E IO TI
DO PATACCA. ADESSO VATTENE A CASA E QUANDO RAGLIA L'ASINO VOLTATI E QUANDO
CANTA IL GALLO NON TI VOLLTARE.
ANDÒ A CASA SI VOLTÒ AL RAGLIO DELL'ASINELLO E LE SPUNTÒ UNA CODA DI SOMARO
SULLA FRONTE. LA CODA ERA INUTILE TAGLIARLA, PERCHÉ RISPUNTAVA. E LA RAGAZZA
PIANGEVA E CANTAVA:
MAMMA MIA, DINDÒ DINDÒ, PIÙ NE TAGLIO E PIÙ CE N'HO.
LA RAGAZZA CON LA STELLA IN FRONTE LA DOMANDÒ IN SPOSA IL FIGLIO DEL
RE. IL GIORNO CHE DOVEVA VENIRLA A PRENDERE CON LA CARROZZA, LA MATRIGNA LE
DISSE: VISTO CHE SPOSI IL FIGLIO DEL RE,
PRIMA DI PARTIRE FAMMI QUESTO PIACERE: LAVAMI LA BOTTE. ENTRACI DENTRO CHE
ORA VENGO AD AIUTARTI.
MENTRE LA RAGAZZA ERA NELLA BOTTE, LA MATRIGNA PRESE UNA CALDAIA D'ACQUA
BOLLENTE PER BUTTARCELA DENTRO ED AMMAZZARLA.
POI VOLEVA FAR INDOSSARE ALLA FIGLIA BRUTTA I VESTITI DA SPOSA E PRESENTARLA
AL FIGLIO DEL RE TUTTA VELATA, IN MODO CHE PRENDESSE LEI.
MENTRE ANDAVA A PRENDERE LA CALDAIA SUL FUOCO, SUA FIGLIA PASSÒ VICINO ALLA
BOTTE.
CHE FAI LÀ DENTRO? DISSE ALLA SORELLA.
STO QUI PERCHÉ DEVO SPOSARE IL FIGLIO DEL RE.
FA' VENIRE ME, COSÌ LO SPOSO IO.
SEMPRE CONDISCENDENTE, LA BELLA USCÌ DALLA BOTTE E CI ENTRÒ LA BRUTTA.
VENNE LA MADRE CON L'ACQUA BOLLENTE E LA VERSÒ NELLA BOTTE. CREDEVA D'AVER
AMMAZZATO LA FIGLIASTRA, MA QUANDO S'ACCORSE CHE ERA LA FIGLIA SUA, COMINCIÒ
A PIANGERE E A STREPITARE. ARRIVÒ SUO MARITO, CHE LA FIGLIA GLI AVEVA GIÀ
RACCONTATO TUTTO, E LE SCARICÒ UN MONTE DI LEGNATE.
LA FIGLIA BELLA SPOSÒ IL FIGLIO DEL RE E VISSE FELICE
E CONTENTA.
1986 |
L’AVVENTURA DI DUE SPOSI
GLI AMORI
DIFFICILI - I RACCONTI
L’OPERAIO ARTURO MASSOLARI FACEVA IL TURNO DELLA NOTTE, QUELLO CHE FINISCE
ALLE SEI. PER RINCASARE AVEVA UN LUNGO TRAGITTO, CHE COMPIVA IN BICICLETTA
NELLA BELLA STAGIONE, IN TRAM NEI MESI PIOVOSI E INVERNALI. ARRIVAVA A CASA
TRA LE SEI E TRE QUARTI E LE SETTE, CIOÈ ALLE VOLTE UN PO’ PRIMA ALLE VOLTE
UN PO’ DOPO CHE SUONASSE LA SVEGLIA DELLA MOGLIE, ELIDE.
SPESSO I DUE RUMORI: IL SUONO DELLA SVEGLIA E IL PASSO DI LUI CHE ENTRAVA SI
SOVRAPPONEVANO NELLA MENTE DI ELIDE, RAGGIUNGENDOLA IN FONDO AL SONNO, IL
SONNO COMPATTO DELLA MATTINA PRESTO CHE LEI CERCAVA DI SPREMERE ANCORA PER
QUALCHE SECONDO COL VISO AFFONDATO NEL GUANCIALE. POI SI TIRAVA SU DAL LETTO
DI STRAPPO E GIÀ INFILAVA LE BRACCIA ALLA CIECA NELLA VESTAGLIA, COI CAPELLI
SUGLI OCCHI. GLI APPARIVA COSÌ, IN CUCINA, DOVE ARTURO STAVA TIRANDO FUORI I
RECIPIENTI VUOTI DALLA BORSA CHE SI PORTAVA CON SÉ SUL LAVORO: IL
PORTAVIVANDE, IL TERMOS, E LI POSAVA SULL’ACQUAIO. AVEVA GIÀ ACCESO IL
FORNELLO E AVEVA MESSO SU IL CAFFÈ. APPENA LUI LA GUARDAVA, A ELIDE VENIVA
DA PASSARSI UNA MANO SUI CAPELLI, DA SPALANCARE A FORZA GLI OCCHI, COME SE
OGNI VOLTA SI VERGOGNASSE UN PO’ DI QUESTA PRIMA IMMAGINE CHE IL MARITO
AVEVA DI LEI ENTRANDO IN CASA, SEMPRE COSÌ IN DISORDINE, CON LA FACCIA
MEZZ’ADDORMENTATA. QUANDO DUE HANNO DORMITO INSIEME È UN’ALTRA COSA, CI SI
RITROVA AL MATTINO A RIAFFIORARE ENTRAMBI DALLO STESSO SONNO, SI È PARI.
ALLE VOLTE INVECE ERA LUI CHE ENTRAVA IN CAMERA A DESTARLA, CON LA TAZZINA
DEL CAFFÈ, UN MINUTO PRIMA CHE LA SVEGLIA SUONASSE; ALLORA TUTTO ERA PIÙ
NATURALE, LA SMORFIA PER USCIRE DAL SONNO PRENDEVA UNA SPECIE DI DOLCEZZA
PIGRA, LE BRACCIA CHE S’ALZAVANO PER STIRARSI, NUDE, FINIVANO PER CINGERE IL
COLLO DI LUI. S’ABBRACCIAVANO.
ARTURO AVEVA INDOSSO IL GIACCONE IMPERMEABILE; A SENTIRSELO VICINO LEI
CAPIVA IL TEMPO CHE FACEVA: SE PIOVEVA O FACEVA NEBBIA O C’ERA NEVE, A
SECONDO DI COM’ERA UMIDO E FREDDO. MA GLI DICEVA LO STESSO: – CHE TEMPO FA?
– E LUI ATTACCAVA IL SUO SOLITO BRONTOLAMENTO MEZZO IRONICO, PASSANDO IN
RASSEGNA GLI INCONVENIENTI CHE GLI ERANO OCCORSI, COMINCIANDO DALLA FINE: IL
PERCORSO IN BICI, IL TEMPO TROVATO USCENDO DI FABBRICA, DIVERSO DA QUELLO DI
QUANDO C’ERA ENTRATO LA SERA PRIMA, E LE GRANE SUL LAVORO, LE VOCI CHE
CORREVANO NEL REPARTO, E COSÌ VIA.
A QUELL’ORA, LA CASA ERA SEMPRE POCO SCALDATA, MA ELIDE S’ERA TUTTA
SPOGLIATA, UN PO’ RABBRIVIDENDO, E SI LAVAVA, NELLO STANZINO DA BAGNO.
DIETRO VENIVA LUI, PIÙ CON CALMA, SI SPOGLIAVA E SI LAVAVA ANCHE LUI,
LENTAMENTE, SI TOGLIEVA DI DOSSO LA POLVERE E L’UNTO DELL’OFFICINA. COSÌ
STANDO TUTTI E DUE INTORNO ALLO STESSO LAVABO, MEZZO NUDI, UN PO’
INTIRIZZITI, OGNI TANTO DANDOSI DELLE SPINTE, TOGLIENDOSI DI MANO IL SAPONE,
IL DENTIFRICIO, E CONTINUANDO A DIRE LE COSE CHE AVEVANO DA DIRSI, VENIVA IL
MOMENTO DELLA CONFIDENZA, E ALLE VOLTE, MAGARI AIUTANDOSI A VICENDA A
STROFINARSI LA SCHIENA, S’INSINUAVA UNA CAREZZA, E SI TROVAVANO ABBRACCIATI.
MA TUTT’A UN TRATTO ELIDE: – DIO! CHE ORA È GIÀ! – E CORREVA A INFILARSI IL
REGGICALZE, LA GONNA, TUTTO IN FRETTA, IN PIEDI, E CON LA SPAZZOLA GIÀ
ANDAVA SU E GIÙ PER I CAPELLI, E SPORGEVA IL VISO ALLO SPECCHIO DEL COMÒ,
CON LE MOLLETTE STRETTE TRA LE LABBRA. ARTURO LE VENIVA DIETRO, AVEVA ACCESO
UNA SIGARETTA, E LA GUARDAVA STANDO IN PIEDI, FUMANDO, E OGNI VOLTA PAREVA
UN PO’ IMPACCIATO, DI DOVER STARE LÌ SENZA POTER FARE NULLA. ELIDE ERA
PRONTA, INFILAVA IL CAPPOTTO NEL CORRIDOIO, SI DAVANO UN BACIO, APRIVA LA
PORTA E GIÀ LA SI SENTIVA CORRERE GIÙ PER LE SCALE.
ARTURO RESTAVA SOLO. SEGUIVA IL RUMORE DEI TACCHI DI ELIDE GIÙ PER I
GRADINI, E QUANDO NON LA SENTIVA PIÙ CONTINUAVA A SEGUIRLA COL PENSIERO,
QUEL TROTTERELLARE VELOCE PER IL CORTILE, IL PORTONE, IL MARCIAPIEDE, FINO
ALLA FERMATA DEL TRAM. IL TRAM LO SENTIVA BENE, INVECE: STRIDERE, FERMARSI,
E LO SBATTERE DELLA PEDANA A OGNI PERSONA CHE SALIVA. “ECCO, L’HA PRESO”,
PENSAVA, E VEDEVA SUA MOGLIE AGGRAPPATA IN MEZZO ALLA FOLLA D’OPERAI E
OPERAIE SULL’”UNDICI”, CHE LA PORTAVA IN FABBRICA COME TUTTI I GIORNI.
SPEGNEVA LA CICCA, CHIUDEVA GLI SPORTELLI ALLA FINESTRA, FACEVA BUIO,
ENTRAVA IN LETTO.
IL LETTO ERA COME L’AVEVA LASCIATO ELIDE ALZANDOSI, MA DALLA PARTE SUA, DI
ARTURO, ERA QUASI INTATTO, COME FOSSE STATO RIFATTO ALLORA. LUI SI CORICAVA
DALLA PROPRIA PARTE, PER BENE, MA DOPO ALLUNGAVA UNA GAMBA IN LÀ, DOV’ERA
RIMASTO IL CALORE DI SUA MOGLIE, POI CI ALLUNGAVA ANCHE L’ALTRA GAMBA, E
COSÌ A POCO A POCO SI SPOSTAVA TUTTO DALLA PARTE DI ELIDE, IN QUELLA NICCHIA
DI TEPORE CHE CONSERVAVA ANCORA LA FORMA DEL CORPO DI LEI, E AFFONDAVA IL
VISO NEL SUO GUANCIALE, NEL SUO PROFUMO, E S’ADDORMENTAVA.
QUANDO ELIDE TORNAVA, ALLA SERA, ARTURO GIÀ DA UN PO’ GIRAVA PER LE STANZE:
AVEVA ACCESO LA STUFA, MESSO QUALCOSA A CUOCERE. CERTI LAVORI LI FACEVA LUI,
IN QUELLE ORE PRIMA DI CENA, COME RIFARE IL LETTO, SPAZZARE UN PO’, ANCHE
METTERE A BAGNO LA ROBA DA LAVARE. ELIDE POI TROVAVA TUTTO MALFATTO, MA LUI
A DIR LA VERITÀ NON CI METTEVA NESSUN IMPEGNO IN PIÙ: QUELLO CHE LUI FACEVA
ERA SOLO UNA SPECIE DI RITUALE PER ASPETTARE LEI, QUASI UN VENIRLE INCONTRO
PUR RESTANDO TRA LE PARETI DI CASA, MENTRE FUORI S’ACCENDEVANO LE LUCI E LEI
PASSAVA PER LE BOTTEGHE IN MEZZO A QUELL’ANIMAZIONE FUORI TEMPO DEI
QUARTIERI DOVE CI SONO TANTE DONNE CHE FANNO LA SPESA ALLA SERA.
ALLA FINE SENTIVA IL PASSO PER LA SCALA, TUTTO DIVERSO DA QUELLO DELLA
MATTINA, ADESSO APPESANTITO, PERCHÉ ELIDE SALIVA STANCA DALLA GIORNATA DI
LAVORO E CARICA DELLA SPESA. ARTURO USCIVA SUL PIANEROTTOLO, LE PRENDEVA DI
MANO LA SPORTA, ENTRAVANO PARLANDO. LEI SI BUTTAVA SU UNA SEDIA IN CUCINA,
SENZA TOGLIERSI IL CAPPOTTO, INTANTO CHE LUI LEVAVA LA ROBA DALLA SPORTA.
POI: – SU, DIAMOCI UN ADDRIZZO, – LEI DICEVA, E S’ALZAVA, SI TOGLIEVA IL
CAPPOTTO, SI METTEVA IN VESTE DA CASA. COMINCIAVANO A PREPARARE DA MANGIARE:
CENA PER TUTT’E DUE, POI LA MERENDA CHE SI PORTAVA LUI IN FABBRICA PER
L’INTERVALLO DELL’UNA DI NOTTE, LA COLAZIONE CHE DOVEVA PORTARSI IN FABBRICA
LEI L’INDOMANI, E QUELLA DA LASCIARE PRONTA PER QUANDO LUI L’INDOMANI SI
SAREBBE SVEGLIATO.
LEI UN PO’ SFACCENDAVA UN PO’ SI SEDEVA SULLA SEGGIOLA DI PAGLIA E DICEVA A
LUI COSA DOVEVA FARE. LUI INVECE ERA L’ORA IN CUI ERA RIPOSATO, SI DAVA
ATTORNO, ANZI VOLEVA FAR TUTTO LUI, MA SEMPRE UN PO’ DISTRATTO, CON LA TESTA
GIÀ AD ALTRO. IN QUEI MOMENTI LÌ, ALLE VOLTE ARRIVAVANO SUL PUNTO DI
URTARSI, DI DIRSI QUALCHE PAROLA BRUTTA, PERCHÉ LEI LO AVREBBE VOLUTO PIÙ
ATTENTO A QUELLO CHE FACEVA, CHE CI METTESSE PIÙ IMPEGNO, OPPURE CHE FOSSE
PIÙ ATTACCATO A LEI, LE STESSE PIÙ VICINO, LE DESSE PIÙ CONSOLAZIONE. INVECE
LUI, DOPO IL PRIMO ENTUSIASMO PERCHÉ LEI ERA TORNATA, STAVA GIÀ CON LA TESTA
FUORI DI CASA, FISSATO NEL PENSIERO DI FAR PRESTO PERCHÉ DOVEVA ANDARE.
APPARECCHIATA TAVOLA, MESSA TUTTA LA ROBA PRONTA A PORTATA DI MANO PER NON
DOVERSI PIÙ ALZARE, ALLORA C’ERA IL MOMENTO DELLO STRUGGIMENTO CHE LI
PIGLIAVA TUTTI E DUE D’AVERE COSÌ POCO TEMPO PER STARE INSIEME, E QUASI NON
RIUSCIVANO A PORTARSI IL CUCCHIAIO ALLA BOCCA, DALLA VOGLIA CHE AVEVANO DI
STAR LÌ A TENERSI PER MANO. MA NON ERA ANCORA PASSATO TUTTO IL CAFFÈ E GIÀ
LUI ERA DIETRO LA BICICLETTA A VEDERE SE OGNI COSA ERA IN ORDINE.
S’ABBRACCIAVANO. ARTURO SEMBRAVA CHE SOLO ALLORA CAPISSE COM’ERA MORBIDA E
TIEPIDA LA SUA SPOSA. MA SI CARICAVA SULLA SPALLA LA CANNA DELLA BICI E
SCENDEVA ATTENTO LE SCALE.
ELIDE LAVAVA I PIATTI, RIGUARDAVA LA CASA DA CIMA A FONDO, LE COSE CHE AVEVA
FATTO IL MARITO, SCUOTENDO IL CAPO. ORA LUI CORREVA LE STRADE BUIE, TRA I
RADI FANALI, FORSE ERA GIÀ DOPO IL GASOMETRO. ELIDE ANDAVA A LETTO, SPEGNEVA
LA LUCE. DALLA PROPRIA PARTE, CORICATA, STRISCIAVA UN PIEDE VERSO IL POSTO
DI SUO MARITO, PER CERCARE IL CALORE DI LUI,MA OGNI VOLTA S’ACCORGEVA CHE
DOVE DORMIVA LEI ERA PIÙ CALDO, SEGNO CHE ANCHE ARTURO AVEVA DORMITO LÌ, E
NE PROVAVA UNA GRANDE TENEREZZA.
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con le mucche
I rumori della città che le notti d’estate entrano dalle finestre aperte
nelle stanze di chi non può dormire per il caldo, i rumori veri della città
notturna si fanno udire quando a una cert’ora l’anonimo frastuono dei motori
dirada e tace, e dal silenzio vengono fuori discreti,
nitidi, graduati secondo la distanza, un passo di nottambulo, il fruscio
della bici d’una guardia notturna, uno smorzato lontano schiamazzo, ed un
russare dai piani di sopra, il gemito d’un malato, un vecchio pendolo che
continua ogni ora a battere le ore.
finche
comincia dall’alba l’orchestra delle sveglie nelle case operaie, e sulle
rotaie passa un tram.
Così una notte Marcovaldo tra la moglie e i quattro figli che
sudavano nel sonno, stava a occhi chiusi ad ascoltare quanto di questo
pulviscolo di esili suoni filtrava giù dal selciato del marciapiede per le
basse finestrelle, fin in fondo al suo seminterrato. Sentiva il tacco veloce
e ilare delle donne in ritardo, la suola sfasciata del raccoglitore di
mozziconi dalle irregolari soste, il fischiettio di chi si sente solo, e
ogni tanto un rotto accozzo di parole di un dialogo tra amici, tanto da
indovinare se parlavano di sport o di ragazze.
Ma nella notte calda quei rumori perdevano ogni spicco, si sfacevano come
attutiti dall’afa che ingombrava il vuoto delle vie, e pure sembravano
volersi imporre, sancire il proprio dominio su quel regno disabitato. In
ogni presenza umana Marcovaldo riconosceva tristemente un fratello come lui
inchiodato anche in tempo di ferie a quel forno di cemento cotto e
polveroso, dai debiti, dal peso della famiglia, dai salari scarsi o nulli.
E come se l’idea d’un impossibile vacanza gli avesse subito schiuse le porte
d’un sogno, gli sembrò d’intendere lontano un suono di campani, e il latrato
d’un cane, e pure un corto muggito.
Ma aveva gli occhi aperti, non sognava: e cercava, tendendo l’orecchio, di
trovare ancora un appiglio a quelle vaghe impressioni, o una smentita; e
davvero gli arrivava un rumore come di centinaia e centinaia di passi,
lenti, sparpagliati, sordi, che s’avvicinava e sovrastava ogni altro suono,
tranne appunto quel rintocco rugginoso.
Marcolaldo s’alzò, s’infilò la camicia, i
pantaloni. – Dove vai?- disse la moglie che dormiva con un occhio solo.
- C’è una mandria che passa per la via. Vado a
vedere.
- Anch’io! Anch’io! – fecero i tre bambini che sapevano svegliarsi al punto
giusto.
Era una mandria come ne attraversavano nottetempo la città, al principio
dell’estate, andando verso le montagne per l’alpeggio. Saliti in strada con
gli occhi ancora mezz’appiccicati dal sonno, i bambini videro il fiume delle
groppe bigie e pezzate che invadeva il marciapiede, e strisciava contro i
muri ricoperti di manifesti, le saracinesche abbassate, i pali dei cartelli
di sosta vietata, le pompe di benzina. Avanzando i prudenti zoccoli giù dal
gradino ai crocicchi, i musi senza mai un soprassalto di curiosità accostati
ai lombi di quelle che le precedevano, le mucche si portavano dietro il loro
odore di strame e di fiori di campo e latte e il languido suono dei campani,
e la città pareva non toccarle, tanto erano già dentro il loro mondo di
prati umidi, nebbie montane e guadi di torrenti.
Inquieti invece, come fatti ombrosi dal sovrastare della città, apparivano i
vaccari, che s’affannavano in brevi, inutili corse a fianco della fila,
alzando i bastoni ed esplodendo in voci aspirate e
rotte. I cani, cui nulla di quel che è umano è alieno, ostentavano
disinvoltura procedendo a muso ritto, scampanellando, attenti al loro
lavoro, ma si capiva che anch’essi erano nervosi e impacciati, altrimenti si
sarebbero lasciati distrarre e avrebbero cominciato a annusare cantoni,
fanali, macchie sul selciato, com’è primo pensiero d’ogni cane di città.
- Papà, – dissero i bambini, – le mucche sono
come i tram? Fanno le fermate? Dov’è il capolinea delle mucche?
- Niente a che fare coi tram, – spiegò Marcovaldo. – Vanno in montagna.
- Si mettono gli sci? – Chiese Carletto.
- Vanno al pascolo, a mangiare l’erba.
- E non gli fanno la multa se sciupano i prati?
Chi non faceva domande era Michelino, che, più grande degli altri, le sue
idee sulle mucche già le aveva, e badava solo ormai a verificarle, a
osservare le miti corna, le quadruplici mammelle, le sozze code, le groppe e
le giogaie variegate. Così seguiva la mandria, trotterellando a fianco come
i cani pastori.
Quando l’ultimo branco fu passato, Marcovaldo prese per mano i bambini per
tornare a dormire, ma non vedeva Michelino. Scese nella stanza, chiese alla
moglie: – Michelino è già tornato?
- Michelino? Non era con te?
“S’è messo a seguire la mandria e chissà dov’è andato”, pensò, e ritornò di
corsa in strada. Già la mandria aveva traversato la piazza e Marcovaldo
dovette cercare la via in cui aveva svoltato. Ma
pareva che quella notte diverse mandrie stessero traversando la città,
ognuna per vie diverse, diretta ognuna alla sua valle. Marcovaldo rintracciò
e raggiunse una mandria, poi s’accorse che non era la sua; a una traversa
vide che quattro vie più in là un’altra mandria procedeva parallela e corse
da quella parte; là i vaccari l’avvertirono che ne avevano incontrata
un’altra diretta in senso inverso. Così, fino a che l’ultimo suono di
campanaccio fu dileguato alla luce dell’alba, Marcovaldo continuò a girare
inutilmente.
Il commissario cui si rivolse per denunciare la scomparsa del figlio, disse:
– Dietro una mandria? Sarà andato in montagna, a farsi la villeggiatura,
beato lui. Vedrai, tornerà grasso e abbronzato.
L’opinione del commissario ebbe conferma qualche giorno dopo da un impiegato
della ditta dove lavorava Marcovaldo, tornato dal primo turno di ferie. A un
passo di montagna aveva incontrato il ragazzo: era con la mandria, mandava a
salutare il padre, e stava bene.
Marcovaldo nella polverosa calura cittadina
andava col pensiero al suo figlio fortunato, che adesso certo passare
le ore all’ombra d’un abete, zufolando con una foglia d’erba in bocca,
guardando giù le mucche muoversi lente per il prato, e ascoltando nell’ombra
della valle un fruscio d’acque.
La mamma invece non vedeva l’ora che tornasse: – Verrà in treno? Verrà in
corriera? È già una settimana… È già un mese … Farà
cattivo tempo … – e non si dava pace, con tutto che
averne uno di meno a tavola ogni giorno fosse già un sollievo.
- Beato lui, sta al fresco, e fa panciate di burro e formaggio, – diceva
Marcovaldo, e ogni volta che dal fondo d’una via gli appariva, velato appena
dalla calura, il frastaglio bianco e grigio delle montagne, si sentiva come
sprofondato in un pozzo, alla cui luce, lassù in alto, gli pareva di veder
scintillare fronde d’aceri e castagni, e ronzare api selvatiche, e Michelino
lassù, pigro e felice, tra il latte e il miele e le more di siepe.
Anche lui però aspettava il ritorno del figlio di sera in sera, pur non
pensando, come la madre, agli orari del treno e delle corriere: stava in
ascolto la notte ai passi sulla via come se la finestrella della stanza
fosse la bocca d’una conchiglia, riecheggiante, ad appoggiarvi l’orecchio, i
rumori montani.
Ecco, una notte, alzatosi di scatto a sedere sul letto, non era
un’illusione, sentiva sul selciato avvicinarsi quell’inconfondibile
scalpiccio d’unghie fesse, misto al rintocco dei campani.
Corsero in strada, lui e tutta la famiglia. Ritornava la mandria, lenta e
grave. E nel mezzo della mandria, a cavalcioni sulla groppa d’una mucca, con
le mani strette al collare, col capo che ballonzolava a ogni passo, c’era,
mezzo addormentato, Michelino.
Lo presero su di peso, l’abbracciarono e baciarono. Lui era mezzo stordito.
- Come stai? Era bello?
- Oh … sì …
- E a casa avevi voglia di tornare?
- Sì …
- È bella la montagna?
Era in piedi di fronte a loro, con le ciglia aggrottate, lo sguardo duro.
- Lavoravo come un mulo,- disse, e sputò davanti a sé. S’era fatta una
faccia da uomo.
- Ogni sera spostare i secchi ai mungitori da una bestia all’altra, e poi
vuotarli nei bidoni, in fretta, sempre più in fretta, fino a tardi. E al
mattino presto, rotolare i bidoni fino ai camion che li portano in città… E
contare, contare sempre: le bestie, i bidoni, guai se si sbagliava
…
- Ma sui prati ci stavi? Quando le bestie
pascolavano ? …
- Non s’aveva mai tempo. Sempre qualcosa da fare. Per il latte, le lettiere,
il letame. E tutto per cosa? Con la scusa che non avevo il contratto di
lavoro, quanto m’hanno pagato? Una miseria. Ma se ora credete che ve ne dia
a voi, vi sbagliate. Su, andiamo a dormire che sono stanco morto.
Scrollò le spalle, tirò su dal naso ed entrò in casa.
La mandria continuava a allontanarsi nella via, portandosi dietro i
menzogneri e languidi odori di fieno e suoni di campani.
tratto da i racconti
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Marcovaldo
Con questa raccolta di novelle Italo
Calvino affronta e analizza numerosi temi caratterizzanti gli anni del boom
economico italiano attraverso gli occhi del protagonista Marcovaldo ... La condanna della civiltà e della mentalità
industriale si contrappone ad un sognato mondo idillico a cui è impossibile
ritornare.
cristina
pagnin - gvonline.it
.
Attese il crollo . E avvenne :
ma fu un tonfo da sotto in su. Sull'orlo della rapida, in quella
stagione di magra, s'erano ammucchiati banchi di fanghiglia, qualcuno
inverdito da esili cespi di canne e giunchi . Il
barcone ci s'incagliò con tutta la sua piatta carena, facendo
sobbalzare l'intero carico di sabbia e l'uomo sepolto dentro. Marcovaldo si
trovò proiettato in aria come da una catapulta, e in quel momento vide
il fiume sotto di lui . Ossia : non lo vide affatto,
vide solo il brulichio di gente di cui il fiume era pieno .
.
Sentiva la neve come amica, come un elemento che annullava la gabbia di muri
in cui era imprigionata la sua vita .
.
Chi ha occhio, trova quel che cerca anche ad occhi chiusi.
.
Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui
s’accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che
starnutano per pollini di fiori d’altre terre.
.
Per le vie della città Marcovaldo non faceva che
incontrare altri Babbi Natale rossi e bianchi, uguali identici a lui, che
pilotavano camioncini o che aprivano le portiere dei negozi
ai clienti carichi di pacchi o li aiutavano a portare le compere fino
all'automobile. E tutti questi Babbi Natale avevano un'aria concentrata e
indaffarata, come fossero addetti al servizio di manutenzione dell'enorme
macchinario delle Feste .
.
Marcovaldo considerando quanto gli spettava a fine mese tra tredicesima
mensilità e ore straordinarie immagina di poter correre per i negozi a comprare
comprare comprare per regalare regalare regalare .
.
aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita
cittadina: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per
studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che
pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su
un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non
c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di
fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse e non facesse
oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del
suo animo .
.
Alle sei di sera la città cadeva in mano
dei consumatori. Per tutta la giornata il gran daffare della popolazione
produttiva era il produrre: producevano beni di consumo. A una cert’ora, come
per lo scatto di un interruttore, smettevano la produzione e, via! Si buttavano
tutti a consumare .
marcovaldo al supermarket
.
Una volta, un volo di beccacce autunnali apparve
nella fetta di cielo di una via. Se ne accorse solo
Marcovaldo, che camminava sempre a naso in aria. Era su un triciclo a
furgoncino e, quando vide gli uccelli pedalò più forte, come ad inseguirli.
E cosi, con gli occhi fissi agli uccelli che volavano, si trovò in mezzo
ad un crocevia, con il semaforo rosso, tra le macchine, ad un pelo
dell'essere investito. Mentre un vigile con la
faccia paonazza gli prendeva nome e indirizzo sul taccuino, Marcovaldo cercò
con lo sguardo quelle ali nel cielo, ma erano scomparse. In ditta, la multa
gli suscitò aspri rimproveri. - Manco i semafori capisci? - gli gridò il
caporeparto - Ma che cosa guardavi, testavuota ? - Uno
stormo di beccacce, guardavo ... - disse lui. - Cosa ?
- e al capo reparto che era un vecchio cacciatore, scintillarono gli
occhi. autunno
teatro
spazio vuoto - imperia - primo
spettacolo per bambini e non solo - dal 2014
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L'INTERVISTA
IMPOSSIBILE ALL'UOMO DI NEANDERTHAL
.PDF
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Torino è una città che invita al rigore, alla linearità. Allo stile.
Invita alla logica, e attraverso la logica apre la via alla follia .
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Il genere umano è una zona del vivente che va definita
circoscrivendone i confini
da introduzione a plinio il vecchio - storia naturale
Riconoscere se stessi come individui può essere facile
ma l'importante è riconoscere che sono individui anche gli altri
*
CANTAUTORE - Primo maggio 1958
Italo Calvino fa il suo esordio come «cantautore».
Ma cantautore per davvero.
E aveva pure la voce da baritono, finto baritono, quello da troppe sigarette.
Al corteo della Cgil a Torino gli altoparlanti gracchiano la canzone Dove vola l’avvoltoio, scritta da Calvino, musicata da Sergio Liberovici.
È una canzone con i partigiani buoni, o perlomeno dalla parte giusta, e i nazisti-avvoltoi cattivi. E contro la guerra.
E per dire che non era, quella «canzonetta», una divagazione ludica di un già grande scrittore
(aveva ormai pubblicato Il barone rampante e Il visconte dimezzato) leggete il confronto tra i versi del più grande cantautore italiano, Fabrizio De André, e quelli di Calvino.
|
De André - La guerra di Piero - 1964
Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente
.
Calvino - Dove vola l’avvoltoio - 1958
Nella limpida corrente
Ora scendon carpe e trote
Non più i corpi dei soldati
Che la fanno insanguinar
ilpost.it - 2012
|
Farsi fotografare - o comunque ritrarre - è
produrre un’immagine di se stessi.
Da ciò derivano le due preoccupazioni che
contribuiscono all’incertezza: quella della convinzione inconscia che il
ritratto sia opera non del ritrattista ma della nostra faccia che
atteggiandosi diversamente, offrendosi alle luci e alle ombre produce
diverse immagini; e quella del rivelare (anche a noi stessi) ciò che si è,
al di là dell’immagine che vogliamo dare (anche a noi stessi). Si finisce
insomma per considerare ogni ritratto autoritratto, allo stesso modo che,
nell’universo estetico moderno, l’artista o lo scrittore, qualsiasi cosa
rappresenti, è cosciente di ritrarre se stesso, sempre con una buona parte
di calcolo. L’incertezza di fronte all’obbiettivo misura la distanza tra
la parte dell’io intenzionale e quella dell’io sconosciuto. O forse il
carattere illusorio di entrambe. IC
c.gajani - ritratto-identità-maschera - 1976 |
Itala
varietà di margherita in omaggio a Italo
Calvino
Istituto per la floricoltura regionale - Sanremo
rivierapress - 2017 .
asteroide 22370 ItaloCalvino
Allo scrittore è stato dedicato un asteroide di
piccole dimensioni, individuato dall’Osservatorio di Bassano Bresciano e
nominato 22370 ItaloCalvino. Fu scoperto proprio nello stesso giorno del
compleanno di Calvino, il 15 ottobre 1993.
sololibri.net/Italo-Calvino
. |
*
FIABA DEI GATTI___CONTADINO ASTROLOGO
citta invisibili
lezioni americane
due sposi
IL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO
I FIGLI DI BABBO NATALE
cosmicomiche
con le mucche
-
Marcovaldo
BARONE RAMPANTE
PALOMAR
IL CAVALIERE INESISTENTE
AMORI
DIFFICILI
VISCONTE DIMEZZATO
L'ACQUA NEL CESTELLO
SE UNA NOTTE D'INVERNO UN VIAGGIATORE
*
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FUTURISMO
marinetti
1 -
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.
palazzeschi
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-
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. CALVINO
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-
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-
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MAJAKOVSKIJ
.
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