I
DELITTI DELLA RUE MORGUE
nier ce qui
est
et d'expliquer ce qui
n'est pas
Rousseau, Nouvelle Heloise.
negare cio' che è
e spiegare cio' che non è
quale
canzone cantassero le sirene
o quale nome assumesse achille
quando si
nascose tra le donne
per quanto problemi sconcertanti
non sono al di
là di ogni congettura
sir
thomas browne - hydriotaphia
Le facoltà mentali che definiamo analitiche sono di per sé poco
suscettibili di analisi. Le intendiamo a fondo unicamente nei loro
effetti. Di esse sappiamo, tra l'altro, che per chi le possiede in
misura straordinaria sono, sempre, fonte del più vivo godimento. Come
l'uomo forte gode della propria prestanza fisica, dilettandosi di quegli
esercizi che impegnano i suoi muscoli, così l'analista si compiace di
quell'attività mentale che risolve. Trae piacere anche dalle occupazioni
più banali, purché impegnino i suoi talenti. È appassionato di enigmi,
di rebus, di geroglifici, facendo mostra nel risolverli di un acumen che
a un'intelligenza comune appare soprannaturale. I risultati cui
perviene, dedotti dall'anima stessa, dall'essenza del metodo, hanno, in
verità, tutta l'aria dell'intuizione. La capacità di risolvere è
probabilmente potenziata dallo studio della matematica e soprattutto del
ramo più nobile di essa che impropriamente, e solo a causa delle sue
operazioni a ritroso, è stato denominato analisi, quasi lo fosse par
excellence. Eppure calcolare non è di per sé analizzare. Un giocatore di
scacchi, ad esempio, calcola, senza ricorrere all'analisi. Ne consegue
che il gioco degli scacchi, per quanto concerne il suo effetto
sull'abito mentale, è completamente frainteso. Non sto scrivendo un
trattato, ma semplicemente premettendo alcune osservazioni fatte un po'
a casaccio a una narrazione piuttosto singolare; colgo pertanto
l'occasione per sostenere che le facoltà superiori dell'intelletto
riflessivo vengono messe alla prova più decisamente e con maggiore
utilità dal più modesto gioco della dama che dall'elaborata vacuità
degli scacchi. In quest'ultimo gioco, dove i PEZZI hanno movimenti
diversi e «bizzarri», secondo valori vari e variabili, quanto è solo
complicato passa (errore tutt'altro che insolito) per profondo. Vi si
esige un'attenzione davvero straordinaria. Ove essa si allenti per un
attimo, ne conseguirà una svista comportante un danno o una sconfitta.
Poiché le mosse possibili non sono solo molteplici, ma anche complesse,
le occasioni per simili sviste si moltiplicano, e nove volte su dieci
chi vince non è il giocatore più sottile, ma quello capace di maggior
concentrazione. A dama, al contrario, dove le mosse sono di un unico
tipo e scarse le variazioni, le probabilità di distrazione sono minori,
e poiché la mera attenzione viene impiegata solo relativamente, i
risultati ottenuti da entrambi gli avversari sono da attribuirsi a un
acumen maggiore. Ma lasciamo le astrazioni. Immaginiamo una partita a
dama dove i PEZZI siano ridotti a quattro-dame, e dove, naturalmente,
non sia probabile alcuna svista. È chiaro che qui la vittoria sarà
decisa (dal momento che i giocatori si equivalgono) solo da una mossa
recherchée, risultato di un poderoso sforzo dell'intelletto. Privato
delle consuete risorse, l'analista penetra nello spirito
dell'avversario, si identifica con esso, e non di rado vede così, con
una sola occhiata, l'unico metodo (talora assurdamente semplice) con cui
può indurre l'altro in errore o fargli fare, per la fretta, un calcolo
sbagliato.
Da lungo tempo il whist è apprezzato per l'influenza che esso esercita
su quella che viene definita capacità di calcolo; e si sa che uomini di
altissimo intelletto ne hanno tratto un diletto apparentemente
inspiegabile, mentre hanno disdegnato gli scacchi come gioco frivolo.
Senza dubbio non v'è tra i giochi nulla che impegni a tal punto la
facoltà di analisi. Il miglior giocatore di scacchi della cristianità
sarà il miglior giocatore di scacchi o poco più; ma l'abilità al whist
implica una probabilità di successo in tutte quelle imprese tanto più
importanti in cui una mente si trova a lottare con un'altra mente.
Quando dico abilità, intendo quella perfezione di gioco che implica la
conoscenza di tutti i mezzi da cui possa trarsi legittimo vantaggio.
Tali mezzi non sono soltanto molteplici ma multiformi, e si celano
spesso in recessi del pensiero assolutamente inaccessibili
all'intelligenza normale. Osservare attentamente significa ricordare con
chiarezza; e, sotto questo aspetto, l'attento giocatore di scacchi
riuscirà benissimo nel whist; d'altra parte, le «regole di Hoyle»
(anch'esse basate sulla mera meccanica del gioco) sono di facile e
generale comprensione. Così avere una memoria salda e attenersi
fedelmente alle «regole» sono punti generalmente considerati come il
meglio, il massimo del ben giocare. Ma è nei casi che si collocano fuori
delle pure e semplici regole che si manifesta l'abilità dell'analista.
In silenzio, egli fa una quantità di osservazioni e deduzioni; lo
stesso, forse, fanno i suoi compagni di gioco; ma la differenza nella
portata delle informazioni così ottenute non consiste tanto nella
validità della deduzione quanto nella qualità dell'osservazione. Quel
che e necessario sapere è che cosa bisogna osservare. Il nostro
giocatore non si pone limiti, né, per il fatto che l'oggetto è il gioco,
trascura di trarre deduzioni da ciò che è estraneo al gioco. Scruta
l'espressione del suo compagno, confrontandola attentamente con quella
di ciascuno dei suoi avversari. Tiene d'occhio il modo in cui, a ogni
mano, ciascuno dispone le proprie carte, spesso contando gli assi e le
figure grazie agli sguardi dei giocatori che via via ne sono in
possesso. Nota il mutare dei volti man mano che il gioco procede,
traendo materia di riflessione dalle diverse espressioni: sicurezza,
sorpresa, trionfo, disappunto. Dal modo di raccogliere un'alzata,
giudica se chi la prende ha la possibilità di farne un'altra dello
stesso seme o colore. Riconosce la carta giocata per ingannare dal modo
in cui viene buttata sul tavolo. Una parola casuale o distratta; una
carta caduta o scoperta accidentalmente, e il nervosismo o la noncuranza
con cui viene nascosta; il conteggio delle alzate, l'ordine con cui si
succedono; l'imbarazzo, l'esitazione, l'impeto o la trepidazione, tutto
ciò consente alla sua percezione apparentemente intuitiva di trarre
indicazioni sullo stato effettivo delle cose. Una volta giocate le prime
due o tre mani, egli conosce perfettamente le carte di cui ciascun
giocatore dispone, e da quel momento è in grado di buttar giù le sue
seguendo un piano così preciso come se gli altri giocassero a carte
scoperte.
La capacità analitica non deve essere confusa con la semplice
ingegnosità; giacché mentre l'analista è necessariamente ingegnoso,
l'uomo ingegnoso è spesso assolutamente negato all'analisi. La facoltà
di collegare o combinare, attraverso cui l'ingegnosità comunemente si
manifesta, e alla quale i frenologi hanno assegnato (secondo me, a
torto) un organo a parte, considerandola una facoltà originaria, è stata
così frequentemente riscontrata in persone il cui livello intellettuale
rasentava per altri versi l'idiozia, da attirare l'attenzione di tutti
gli studiosi di scienze morali.
Tra l'ingegnosità e la capacità analitica esiste in effetti una
differenza ancor più notevole di quella che intercorre tra fantasia e
immaginazione, benché di carattere assolutamente analogo. Si constaterà
che l'uomo ingegnoso è sempre ricco di fantasia, e che l'uomo dotato di
vera immaginazione non è mai altro che analitico.
La narrazione che segue apparirà al lettore come una sorta di commento
alle proposizioni ora enunciate.
A Parigi, dove soggiornai tutta la primavera e parte dell'estate del
18.., feci la conoscenza di un certo Monsieur C. Auguste Dupin. Questo
giovane gentiluomo apparteneva a un'ottima, anzi a un'illustre famiglia,
ma da tutta una serie di malaugurate vicende era stato ridotto a tal
grado di indigenza, che l'energia del suo carattere aveva finito col
soccombere, ed egli aveva rinunciato ad ogni ambizione sociale e aveva
cessato di preoccuparsi di riassestare le sue finanze. Grazie alla
cortesia dei suoi creditori, gli restava ancora una piccola parte del
patrimonio; e con la rendita che gliene veniva, riusciva, per mezzo di
una rigorosa economia, a procurarsi il necessario per vivere, senza
darsi pensiero del superfluo. Suo unico lusso erano i libri, e a Parigi
non è difficile procurarsene.
Ci incontrammo la prima volta in un'oscura libreria di Rue Montmartre,
dove il fatto fortuito di essere entrambi alla ricerca dello stesso
volume, raro quanto singolare, ci portò a intrattenere più stretti
rapporti. Da allora ci rivedemmo spesso. Mi interessò vivamente la sua
piccola storia familiare, che egli mi narrò nei minimi particolari, con
tutta quella franchezza di cui e capace un francese, ogniqualvolta
discorre di se stesso. Mi stupì la vastità delle sue letture; e,
soprattutto, sentii il mio spirito infiammarsi a contatto dello
stravagante fervore, della vivida freschezza della sua immaginazione.
Considerando ciò che allora mi interessava scoprire a Parigi, pensa, che
la compagnia di un uomo simile sarebbe stata per me un tesoro
inestimabile, e francamente glielo confidai. Alla fine combinammo di
abitare insieme durante il mio soggiorno nella capitale; e poiché la mia
situazione finanziaria era meno precaria della sua, potei addossarmi le
spese dell'affitto e dell'arredamento, in uno stile che si confacesse
alla tetraggine un po' fantastica del mio e del suo carattere, di una
casa grottesca, rosa dal tempo, da lungo disabitata a causa di certe
superstizioni che trascurammo di indagare, che sorgeva, semidiroccata
ormai, in una zona solitaria e squallida del Faubourg Saint-Germain.
Se la gente fosse venuta a conoscenza di quella che era la routine della
nostra vita lì, in quella casa, ci avrebbe certo presi per pazzi, anche
se, forse, non pericolosi. Il nostro isolamento era assoluto. Non
ricevevamo visite. Anzi, il luogo del nostro ritiro era stato
accuratamente tenuto segreto anche ai miei amici d'una volta; ed erano
molti anni ormai che Dupin non conosceva nessuno a Parigi, e da nessuno
era conosciuto. Esistevamo solo per noi stessi.
Il mio amico indulgeva a una stravaganza (come altrimenti potrei
chiamarla?): era innamorato della notte per se stessa; e io quietamente
cedetti a questa sua bizarrerie, come a tutte le altre, assecondando i
suoi singolari capricci con completo abandon. La tenebrosa divinità non
dimorava sempre con noi, ma potevamo fingerne la presenza. Non appena
albeggiava, chiudevamo tutti i massicci scuri della vecchia casa;
accendevamo un paio di candele, fortemente aromatiche, che diffondevano
solo fiochi raggi spettrali. E allora, con il loro aiuto, le nostre
anime inseguivano i sogni - leggendo, scrivendo, o conversando, finché
l'orologio ci annunziava il sopravvenire dell'Oscurità vera. Allora
uscivamo a passeggiare per le strade, sottobraccio, continuando i
discorsi del giorno, o vagando senza meta fino a ora tarda, in cerca,
tra le luci e le ombre strane della città popolosa, di
quell'inesauribile eccitazione della mente che la tacita osservazione
può consentire.
In quelle occasioni non potevo fare a meno di notare e ammirare in Dupin
(anche se la naturale intensità della sua attività ideativa ben mi
portava a prevederla) una straordinaria capacità analitica. Sembrava
anche che dall'esercizio (non voglio dire dall'ostentazione) di tale
capacità egli traesse grande diletto, cosa che del resto non esitava a
confessare. Con un riso sommesso, si vantava con me del fatto che per
lui la maggior parte degli uomini avevano davanti al cuore delle
finestre spalancate, ed era solito far seguire a tali affermazioni prove
dirette e sbalorditive dell'intima conoscenza che aveva del mio cuore.
In quei momenti i suoi modi erano freddi e distanti; gli occhi privi
d'espressione; e la voce, solitamente di caldo timbro tenorile, prendeva
un tono acuto che sarebbe parso petulante, non fosse stato per la sua
determinazione e l'assoluta chiarezza della pronuncia. Osservandolo nei
momenti di questo suo umore, mi soffermavo spesso a meditare sull'antica
dottrina dell'anima bipartita, divertendomi a fantasticare di un duplice
Dupin: il Dupin che crea e il Dupin che risolve.
Non si deve pensare, da quanto ho detto, che io stia rivelando un
mistero o scrivendo un racconto di pura fantasia. Ciò che ho descritto
in questo francese era solo l'effetto di una intelligenza sovreccitata o
forse malata. Ma un esempio darà una migliore idea della natura delle
sue osservazioni nei momenti ai quali ho accennato.
Passeggiavamo una notte per una lunga strada sudicia nei pressi del
Palais Royal. Entrambi immersi nei nostri pensieri, per almeno un quarto
d'ora non avevamo detto sillaba. All'improvviso, Dupin ruppe il silenzio
con queste parole:
«Verissimo: è troppo piccolo, quell'uomo. Sarebbe più adatto per il
Théâtre des Variétés».
«Non c'è dubbio», risposi, senza farci caso, senza notare al primo
momento (tanto ero immerso nelle mie riflessioni) la maniera
straordinaria con cui il mio interlocutore si era inserito nel filo
delle mie meditazioni. Dopo un istante mi ripresi, e il mio stupore fu
profondo.
«Dupin», dissi gravemente, «questo va al di
là della mia comprensione. Non esito a dire che sono sbalordito, e quasi
non riesco a credere ai miei sensi. Come è possibile che abbiate
indovinato che io stavo pensando a... ?» e qui mi fermai per accertare,
al di là d'ogni dubbio, se sapesse davvero a chi avevo pensato.
«A Chantilly», disse lui; «ma perché v'interrompete? Stavate osservando
fra di voi che la sua statura troppo bassa lo rendeva inadatto a recitar
tragedie».
Ed era stato per l'appunto questo il tema delle mie riflessioni.
Chantilly era un ciabattino di Rue Saint-Denis che, invaghitosi del
palcoscenico, si era cimentato nel rôle di Serse, nell'omonima tragedia
di Crébillon, e i suoi sforzi erano stati oggetto di satire feroci.
«Ditemi, per amor del cielo», esclamai, «quale metodo - se metodo c'è -
vi ha permesso di sondare la mia anima su tale argomento».
«È stato l'ortolano, naturalmente», rispose il mio amico, «a portarvi
alla conclusione che il rappezzasuole non aveva statura sufficiente per
Serse et id genus omne».
«L'ortolano. Mi stupite... Non conosco nessun ortolano».
«L'uomo che vi ha urtato quando abbiamo imboccato questa strada... sarà
un quarto d'ora».
Ricordai ora che, effettivamente, un ortolano, che reggeva sul capo una
gran cesta di mele, mi aveva quasi buttato per terra, sbadatamente,
mentre passavamo dalla Rue C... nella strada dove ora ci trovavamo; ma
che cosa ciò avesse a che fare con Chantilly proprio non riuscivo a
capirlo.
In Dupin non c'era traccia di charlatanerie. «Lo spiegherò», disse, «e
perché possiate capire tutto chiaramente, riesamineremo per prima cosa
il corso dei vostri pensieri dal momento in cui vi ho rivolto la parola
fino a quello della rencontre coll'ortolano in questione. Gli anelli
principali della catena si susseguono così: Chantilly, Orione, Dr.
Nichol, Epicuro, stereotomia, il selciato, l'ortolano».
Poche sono le persone che non si siano divertite, in qualche momento
della loro vita, a ripercorrere i passi compiuti dalla loro mente per
arrivare a determinate conclusioni. È un'occupazione spesso ricca
d'interesse; e chi ci si cimenta per la prima volta si stupirà della
distanza apparentemente incolmabile, della sconnessione tra punto di
partenza e punto di arrivo.
«Stavamo parlando di cavalli, se ben ricordo, giusto prima di lasciare
la Rue... È questo l'ultimo argomento di cui abbiamo discusso. Mentre
attraversavamo la strada per imboccare questa via, un ortolano, con una
gran cesta di mele sul capo, sfiorandoci di gran corsa, vi spinse su un
mucchio di selci raccolte in un punto in cui il marciapiede è in
riparazione. Siete inciampato in una delle pietre sparse all'intorno,
siete scivolato storcendovi leggermente la caviglia, avete preso un'aria
infastidita o perlomeno aggrondata, avete borbottato qualche parola, vi
siete voltato a guardare il mucchio di selci, e poi avete ripreso a
camminare in silenzio. lo non stavo particolarmente attento a quel che
facevate; ma in questi ultimi tempi l'osservazione è diventata per me
una sorta di necessità.
«Tenevate gli occhi per terra... guardavate, seccato, i buchi e i solchi
sul marciapiede (così che mi avvidi che stavate ancora pensando alle
pietre): questo finché arrivammo al passage Lamartine, che è stato
pavimentato, in via sperimentale, con lastre sovrapposte e incastrate.
Qui il volto vi si schiarì un poco e, vedendo che muovevate le labbra,
non ebbi alcun dubbio che mormoraste la parola "stereotomia", termine
che con un bel po' d'affettazione si applica a questo tipo di
lastricato. Sapevo che non avreste potuto pronunciare fra voi il
vocabolo "stereotomia" senza essere portato a pensare agli atomi e, di
conseguenza, alle teorie di Epicuro; e poiché, quando ne discutemmo non
molto tempo fa, vi accennai al fatto invero singolare, anche se
pressoché ignorato, che le vaghe ipotesi di quel greco eccelso avessero
trovato conferma nella più recente cosmogonia delle nebulose, mi parve
che non avreste potuto fare a meno di alzare gli occhi verso la grande
nebula di Orione e aspettai con tutta sicurezza che lo faceste. E
difatti voi alzaste gli occhi; ero certo, ora, d'aver seguito passo
passo il corso del vostro pensiero. Ma in quella spietata tirade contro
Chantilly, pubblicata sul "Musée" di ieri, l'autore, malignamente
satireggiando il cambiamento di nome del ciabattino all'atto di calzare
il coturno, citò un verso latino di cui abbiamo spesso parlato... Mi
riferisco al verso
Perdidit antiquum litera prima sonum.
«Vi avevo detto che questo si riferiva a Orione, che in passato si
scriveva Urione; e, per certe agudezas che entrarono nella spiegazione,
ero certo che non potevate esservene dimenticato. Era perciò evidente
che non avreste mancato di collegare le due idee, di Orione e di
Chantilly. E che effettivamente le collegaste lo capii da quel certo
sorriso che vi sfiorò le labbra. Pensavate allo strazio del povero
ciabattino. Fino allora, avevate camminato tutto curvo; ma ecco che vi
vidi ergervi in tutta la vostra altezza. Fui certo, a questo punto, che
stavate riflettendo sulla statura minuscola di Chantilly. E fu qui che
interruppi le vostre meditazioni per osservare che, verissimo, era
troppo piccolo, quell'uomo, e che sarebbe stato più adatto per il
Théâtre des Variétés".
Non molto tempo dopo, stavamo scorrendo l'edizione della sera della «Gazette
des Tribunaux», quando queste righe fermarono la nostra attenzione:
«SENSAZIONALE DELITTO. Verso le tre di questa mattina, gli abitanti del
quartiere Saint-Roche sono stati destati da un susseguirsi di urla
terrificanti provenienti apparentemente dal quarto piano di una casa
situata in Rue Morgue, notoriamente abitata soltanto da una certa Madame
L'Espanaye e da sua figlia, Mademoiselle Camille L'Espanaye. Dopo
qualche indugio, dovuto al vano tentativo di accedere nel caseggiato per
via normale, il portone venne forzato con un piè di porco, e otto o
dieci vicini entrarono accompagnati da due gendarmes. Nel frattempo, le
grida erano cessate; ma mentre le persone accorse si precipitavano su
per la prima rampa di scale, si udirono due o più voci aspre impegnate
in un violento litigio, che parevano provenire dal piano superiore della
casa. Come venne raggiunto il secondo pianerottolo, anche quei suoni
erano cessati, e tutto era silenzio. Il gruppo si divise, irrompendo nei
diversi locali. Arrivati a una vasta stanza sul retro del quarto piano
(la cui porta, chiusa a chiave dall'interno, dovette essere forzata),
agli occhi dei presenti si presentò uno spettacolo che li empì tutti
d'orrore e insieme di sbalordimento.
«La stanza era in un disordine pazzesco, i mobili rotti e scaraventati
in ogni direzione. C'era un unico letto, e il cassone era stato divelto
e gettato nel mezzo del pavimento. Su una sedia era posato un rasoio,
lordo di sangue. Nel caminetto c'erano due o tre ciocche, lunghe e
folte, di capelli umani grigi, anch'esse intrise di sangue e, a quel che
pareva, strappate dalle radici. Sul pavimento vennero rinvenuti quattro
napoleoni, un orecchino di topazio, tre grandi cucchiai d'argento, altri
tre - più piccoli - di métal d'Alger, e due borse, contenenti quasi
quattromila franchi in oro. I cassetti di un bureau, posto d'angolo,
erano aperti, ed erano stati evidentemente saccheggiati, anche se vi si
trovavano ancora svariati capi di vestiario. Sotto il letto (non sotto
il cassone), venne trovata una piccola cassaforte: aperta, con la chiave
ancora nella serratura. Non conteneva che alcune vecchie lettere, e
altri documenti di poca importanza.
«Nessuna traccia di Madame L'Espanaye; ma essendo stata notata una
quantità inconsueta di fuliggine nel caminetto, si procedette a
esaminare la cappa dello stesso, e (orribile a dirsi!), ne venne tratto,
a testa in giù, il cadavere della figlia, che in quella posizione era
stato forzato per un buon tratto su per l'angusta apertura. Il corpo era
ancora caldo. All'esame, si riscontrarono molte escoriazioni, senza
dubbio prodotte dalla violenza con cui era stato spinto su per la cappa
del camino e successivamente estratto. Il viso presentava numerose e
profonde graffiature, e la gola lividi nerastri e marcate incisioni di
unghie, come se la vittima fosse morta strangolata.
«Dopo minuziosa perlustrazione in ogni parte della casa, senza ulteriori
scoperte, il gruppo di persone passò ad un minuscolo cortile selciato
sul retro della casa, dove giaceva il cadavere della vecchia signora,
con la gola tagliata così a fondo che, quando si tentò di sollevare il
cadavere, la testa se ne staccò. Tanto il corpo che la testa erano
orribilmente mutilati: il primo a tal punto da non serbare quasi più
traccia di parvenza umana.
«A quanto ci risulta, non esiste ancora nessun indizio che possa
condurre alla soluzione di questo orrendo mistero».
Il giornale del giorno successivo riportava questi altri particolari:
«La tragedia della Rue Morgue. Molte persone sono state interrogate in
relazione a questo incredibile e spaventoso affare (la parola affaire
non ha ancora, in Francia, il significato di cosa di trascurabile
importanza che ha da noi), ma nulla è trapelato finora che possa far
luce su di esso. Riportiamo qui sotto tutte le informazioni emerse in
base alle testimonianze.
«Pauline Dubourg, lavandaia, depone di conoscere entrambe le vittime da
tre anni per aver fatto loro il bucato durante tutto quel periodo. La
vecchia signora e sua figlia sembravano in buoni rapporti, molto
affezionate l'una all'altra. Puntuali nei pagamenti. Del loro tenore di
vita e dei loro mezzi, non saprebbe dire. Credeva che Madame L. si
guadagnasse da vivere predicendo la fortuna. Si sapeva che aveva denaro
da parte. Quando lei passava a ritirare la biancheria o a riportarla, in
casa non aveva mai incontrato nessuno. Era sicura che non avessero
persone di servizio. Pareva che, tranne che al quarto piano, non vi
fossero mobili in nessuna parte della casa.
«Pierre Moreau, tabaccaio, depone di aver venduto abitualmente, per
quasi quattro anni, piccole quantità di tabacco da fumo e da fiuto a
Madame L'Espanaye. È nato nel quartiere, e vi ha sempre abitato. La
defunta e sua figlia occupavano da più di sei anni la casa in cui sono
stati rinvenuti i cadaveri. Precedentemente vi aveva abitato un
gioielliere, che aveva subaffittato le stanze del piano superiore a
varie persone. La casa era di proprietà di Madame L. Disgustata
dall'impiego abusivo che l'inquilino faceva dei locali, si era
trasferita lei stessa nell'edificio, rifiutandosi di affittarne una
qualsiasi parte. La vecchia signora era un po' rimbambita. In quei sei
anni, il testimone - aveva visto la figlia cinque-sei volte in tutto. Le
due donne facevano vita estremamente ritirata, e si diceva che avessero
denaro. Aveva sentito dire dai vicini che Madame L. prediceva la
fortuna, ma non ci credeva. Non aveva mai visto nessuno varcare il
portone tranne la vecchia signora e sua figlia, un fattorino un paio di
volte, e un medico otto-dieci volte.
«Molte altre persone nel quartiere hanno deposto in questo senso. Di
nessuno si è detto che frequentasse la casa. Non si sapeva se Madame L.
e sua figlia avessero ancora parenti in vita. Le imposte delle finestre
sulla facciata venivano aperte raramente. Le imposte sul lato posteriore
erano sempre chiuse, eccetto quelle della grande stanza in fondo, al
quarto piano. La casa era in buono stato, non molto vecchia.
«Isidore Musèt, gendarme, depone di essere
stato chiamato sul luogo verso le tre del mattino e di aver trovato,
davanti al portone, venti o trenta persone che cercavano di entrare.
Infine aveva forzato l'ingresso con una baionetta, non con un piè di
porco. Non aveva avuto grandi difficoltà ad aprire il portone, essendo
questo a due battenti e privo di sbarra, sia in alto sia in basso. Le
urla erano continuate finché il portone era stato forzato; poi,
bruscamente, erano cessate. Sembravano grida di una o più persone in
preda alle pene più atroci: erano alte e prolungate, non brevi e rapide.
Il testimone precedette gli altri su per le scale. Raggiunto il primo
pianerottolo, udì due voci in aspro e violento alterco: una era una voce
roca, l'altra molto più stridula, una voce stranissima. Poté cogliere
alcune parole della prima, la voce di un francese. Era certo che non si
trattasse della voce di una donna. Riuscì a distinguere le parole "sacré"
e "diable". La voce stridula era quella di uno straniero, ma non poteva
dire se si trattasse della voce di un uomo o di una donna. Non riuscì a
capire quel che diceva, ma credeva che la lingua fosse lo spagnolo. Lo
stato della camera e dei corpi venne descritto dal teste così come
l'abbiamo riferito ieri.
«Henri Duval, un vicino, di professione argentiere, depone di aver fatto
parte del gruppo che per primo entro nella casa. Conferma in generale la
deposizione di Musèt. Appena forzato il portone, lo richiusero per
impedire l'accesso alla folla che, malgrado l'ora tarda, si andava
rapidamente assembrando. La voce stridula, secondo il teste, era quella
di un italiano.
«Odenheimer, restaurateur. Il testimone si è
presentato spontaneamente a deporre. Non parla francese, ed è stato
interrogato tramite interprete. È nato ad Amsterdam. Passava davanti
alla casa nel momento in cui si udivano le urla. Durarono per parecchi
minuti, forse dieci. Erano prolungate e altissime, veramente terribili e
sconvolgenti. Fu tra quelli che entrarono nell'edificio. Ha confermato
la precedente testimonianza su tutti i punti, eccetto uno. Era certo che
la voce stridula fosse quella di un uomo, di un francese. Non riuscì a
distinguere le parole pronunciate. Erano forti e rapide, sconnesse, come
se chi parlava fosse in preda alla paura, oltre che alla collera. La
voce era aspra, più aspra che stridula. Non poteva definirla stridula.
La voce roca disse ripetutamente "sacré", "diable", e una volta "mon
Dieu".
«Jules Mignaud, banchiere, della ditta Mignaud et Fils, Rue Deloraine. È
Mignaud padre. Madame L'Espanaye possedeva una piccola fortuna. Aveva
aperto un conto presso la sua banca nella primavera dell'anno... (otto
anni prima). Depositava spesso piccole somme. Fino al terzo giorno prima
della sua morte non aveva mai effettuato prelievi: quel giorno venne di
persona a ritirare quattromila franchi. La somma le era stata pagata in
oro e mandata a casa a mezzo di un fattorino.
«Adolphe Le Bon, fattorino presso Mignaud et
Fils, depone che il giorno in questione, verso mezzogiorno, aveva
accompagnato Madame L'Espanaye fino alla sua abitazione con i
quattromila franchi distribuiti in due borse. Quando la porta venne
aperta, comparve Mademoiselle L., che gli tolse di mano una delle borse,
mentre la vecchia signora prendeva l'altra. Dopo di che, si era
congedato con un inchino. Per la strada non aveva visto nessuno. È una
via secondaria, poco frequentata.
«William Bird, sarto, depone di aver fatto parte del gruppo che penetrò
nella casa. Vive a Parigi da due anni. Fu uno dei primi a salire le
scale. Ha sentito le voci, come in un alterco. La voce roca era quella
di un francese. Poté distinguere diverse parole, ma ora non le ricorda
tutte. Ha udito chiaramente "sacré" e "mon Dieu". In quel momento c'era
un rumore come di più persone impegnate in una rissa: come uno
scalpiccio, e dei tonfi. La voce stridula era molto forte, più forte
della voce roca. Non era, ne è sicuro, la voce di un inglese; forse di
un tedesco. Avrebbe potuto essere una voce di donna. Non sa il tedesco.
«Quattro dei succitati testi, riconvocati, hanno deposto che la porta
della camera in cui fu trovato il corpo di Mademoiselle L. era chiusa
dall'interno nel momento in cui il gruppo dei soccorritori la raggiunse.
Il silenzio era assoluto. Né gemiti, né rumori di sorta. Le finestre,
sia quella che dà sul retro, sia quella che dà sulla facciata, erano
abbassate e saldamente chiuse dall'interno. Una porta tra le due stanze
era chiusa, ma non a chiave. La porta di comunicazione tra la stanza che
dà sulla facciata e il corridoio era chiusa a chiave, con la chiave
all'interno.
Uno stanzino sul davanti della casa, al quarto piano, in fondo al
corridoio, era aperto, con l'uscio accostato. In questo stanzino erano
ammucchiate vecchie lettiere, scatole, e così via. Il tutto venne
scrupolosamente rimosso ed esaminato. Non c'è un centimetro, in tutta la
casa, che non sia stato scrupolosamente esaminato. Apposite spazzole
vennero mandate su e giù per i camini. La casa ha quattro piani, più i
solai (mansardes). Una botola sul tetto era stata saldamente inchiodata,
e aveva tutta l'aria di non essere stata aperta da anni. Il tempo
trascorso tra il momento in cui si erano udite le grida della rissa e
quello in cui fu forzata la porta venne variamente indicato dal
testimoni. Secondo alcuni, non più di tre minuti. Secondo altri, almeno
cinque. La porta fu aperta con difficoltà.
«Alfonso Garcio, impresario di pompe funebri, dichiara di abitare in Rue
Morgue. È spagnolo di nascita. Faceva parte del gruppo che penetrò nella
casa. Non sali ai piani superiori. È impressionabile, e temeva le
conseguenze di una troppo violenta emozione. Udì le voci nell'alterco.
La voce roca era quella di un francese. Non poté afferrare cosa dicesse.
La voce stridula era di un inglese, di questo è sicuro. Non sa
l'inglese, ma giudica dall'intonazione.
«Alberto Montani, pasticciere, depone di essere stato uno dei primi a
salire le scale. Udì le voci in questione. La voce roca era quella di un
francese. Distinse diverse parole. Chi parlava sembrava supplicare
qualcuno. Non era riuscito ad afferrare le parole pronunciate. dalla
voce stridula. Parlava rapidamente e a scatti. Pensa che la voce in
questione fosse quella di un russo. Conferma, in linea generale, le
altre testimonianze. È italiano. Non ha mai avuto a che fare con un
russo.
«Parecchi testi, riconvocati, hanno deposto che i camini di tutte le
stanze del quarto piano sono troppo stretti per consentire il passaggio
di un corpo umano. Per apposite spazzole intendevano quelle spazzole
cilindriche che vengono usate dagli spazzacamini. Dette spazzole vennero
fatte passare in su e in giù attraverso ogni canna della casa. Non ci
sono passaggi sul retro per i quali qualcuno avrebbe potuto discendere
mentre il gruppo delle persone accorse saliva le scale. Il corpo di
Mademoiselle L'Espanaye era così saldamente incastrato nel camino che fu
possibile estrarlo solo grazie agli sforzi congiunti di quattro o cinque
persone.
«Paul Dumas, medico, depone di essere stato chiamato a esaminare i
cadaveri verso l'alba. Erano entrambi composti sul saccone della
lettiera nella camera dove era stata rinvenuta Mademoiselle L. Il corpo
della signorina era coperto di ecchimosi ed escoriazioni. Il fatto che
fosse stato forzato su per il camino bastava a spiegare le sue
condizioni. La gola era tutta scorticata. Proprio sotto il mento,
v'erano parecchi graffi profondi, nonché una serie di lividi,
evidentemente causati dalla pressione di dita. Il viso era tremendamente
livido, gli occhi sporgenti. La lingua era stata parzialmente mozzata
dai denti. Una larga ecchimosi fu scoperta alla bocca dello stomaco,
prodotta, all'apparenza, dalla pressione di un ginocchio. Secondo
Monsieur Dumas, Mademoiselle L'Espanaye era stata strangolata a morte da
una o più persone ignote. Il cadavere della madre era orrendamente
mutilato. Tutte le ossa della gamba e del braccio destro erano più o
meno frantumate. La tibia sinistra, come pure le costole del fianco
sinistro, era scheggiata. Tutto il corpo era spaventosamente illividito,
nerastro. Impossibile dire come fossero state inflitte le ferite. Una
pesante mazza di legno, o una grosso sbarra di ferro, una sedia,
qualsiasi arma grande, pesante, non puntuta avrebbe potuto produrre
effetti del genere, se maneggiata da un uomo di forza eccezionale.
Nessuna donna sarebbe riuscita a vibrare colpi simili con nessun'arma.
La testa della vittima, quando la vide il testimone, era completamente
staccata dal busto, e anch'essa sfracellata. La gola era stata
evidentemente recisa con uno strumento molto tagliente: con tutta
probabilità, un rasoio.
«Alexandre Etienne, chirurgo, venne convocato con Monsieur Dumas ad
esaminare i cadaveri. Conferma la deposizione e il referto di Monsieur
Dumas.
«Null'altro di importante è emerso, sebbene siano state interrogate
parecchie altre persone. Mai delitto così misterioso e così sconcertante
nei particolari fu commesso a Parigi, sempre che si tratti di delitto.
La polizia è del tutto disorientata, fatto insolito in casi di questo
genere. Certo è che finora non v'è ombra di indizio".
Nell'edizione della sera, il giornale riferiva che nel quartiere
Saint-Roche l'impressione era ancora vivissima, che la casa in questione
era stata ancora una volta ispezionata, che si era provveduto a
interrogare altri testi, senza esito alcuno. Un postscritto, tuttavia,
comunicava che Adolphe Le Bon era stato arrestato e tradotto in carcere,
sebbene nulla, a parte i fatti già comunicati, fosse emerso contro di
lui.
Dupin appariva interessatissimo allo svolgimento del caso, o almeno così
giudicai dal suo atteggiamento, perché non fece commenti. Fu solo dopo
la notizia dell'arresto di Le Bon che chiese la mia opinione a proposito
del delitto.
Non potei che dichiararmi d'accordo con tutta Parigi: era un mistero
insolubile. Non vedevo con quale mezzo sarebbe stato possibile scoprire
l'assassino.
«Non dobbiamo giudicare dei mezzi», disse Dupin, «da questo embrione
d'istruttoria. La polizia parigina, tanto esaltata per il suo acumen, è
scaltra, ma niente più. Nel suo modo di procedere non v'è alcun metodo,
oltre al metodo del momento. Fa gran sfoggio di misure speciali, ma non
di rado queste sono così poco adatte agli scopi che si propone, da
rammentarci Monsieur Jourdain che ordinava la sua robe-de-chambre - pour
mieux entendre la musique. E non di rado consegue risultati
sorprendenti; ma, per la maggior parte, essi sono frutto della diligenza
e della solerzia. Quando queste qualità non servono, i piani falliscono.
Vidocq, ad esempio, era uomo di notevole intuito e grande perseveranza.
Ma, mancando di una disciplina intellettuale, sbagliava continuamente
proprio a causa dell'intensità delle sue indagini. A forza di tenere
l'oggetto troppo vicino, la sua visione risultava sfuocata. Riusciva
magari a vedere uno o due punti con non comune chiarezza, ma così
facendo, perdeva inevitabilmente di vista l'insieme. Già, si può essere
troppo profondi. Non sempre la verità è in fondo al pozzo. In effetti,
per quel che riguarda la conoscenza delle cose che più interessano, sono
convinto che essa stia in superficie: sempre. Profonde sono le valli in
cui la cerchiamo, ma non le cime montane su cui la si trova. I modi e le
cause di questo genere d'errore sono perfettamente rappresentati nella
contemplazione dei corpi celesti. Dare una rapida occhiata a una stella,
guardarla in tralice, volgendo verso di essa le parti esterne della
retina (che, più delle interne, sono sensibili alla luce più fioca),
significa vedere quella stella distintamente, significa coglierne al
massimo la luminosità: una luminosità che si attenua via via che
volgiamo su di essa tutta la nostra vista. In quest'ultimo caso l'occhio
è, sì, colpito da un maggior numero di raggi ma più sottile è, nel primo
caso, la sua capacità di percezione. Una profondità fuori luogo confonde
e indebolisce il pensiero. Ed è possibile far scomparire dal firmamento
la stessa Venere, scrutandola con uno sguardo troppo prolungato,
concentrato o diretto.
«Quanto ai nostri delitti, conduciamo una specie di inchiesta per conto
nostro, prima di farci un'opinione. Una indagine ci divertirà» (pensai
che il termine non fosse il più appropriato, ma non dissi nulla). «E
poi, Le Bon mi rese una volta un servigio di cui gli sono tuttora grato.
Andremo a vedere la casa con i nostri occhi. Conosco G..., il Prefetto
di Polizia, e non avrò difficoltà a ottenere l'autorizzazione
necessaria».
L'autorizzazione venne concessa, e subito ci recammo in Rue Morgue. È
questa una delle squallide stradette che collegano Rue Richelieu a Rue
Saint-Roch. Vi arrivammo nel tardo pomeriggio, poiché il quartiere si
trova a grande distanza da quello in cui abitavamo. Trovammo facilmente
la casa, perché c'erano ancora molte persone che, sulla parte opposta
della via, guardavano in su, curiosando oziosamente, verso le imposte
chiuse. Era una casa come se ne vedono tante a Parigi, con un portone, e
su un lato di questo una guardiola a vetri con una finestra scorrevole:
la portineria, o loge de concierge. Prima di entrare, risalimmo la
strada, imboccammo un vicolo e quindi, svoltando di nuovo, ci trovammo
sul retro dell'edificio; intanto Dupin esaminava non solo la casa, ma le
immediate vicinanze con un'attenzione minuziosa, di cui non riuscivo a
capire il senso.
Tornati sui nostri passi, ci portammo di nuovo sul davanti
dell'edificio, suonammo, e, dopo aver mostrato le nostre credenziali,
fummo introdotti dagli agenti di servizio. Salimmo fino alla stanza dove
era stato trovato il cadavere di Mademoiselle L'Espanaye, e dove
giacevano ancora i corpi delle due donne assassinate. Secondo la prassi,
il disordine della stanza era stato lasciato tale e quale. Non vidi
nulla oltre ciò che era stato descritto nella «Gazette des Tribunaux».
Dupin esaminò attentamente ogni cosa, corpi delle vittime compresi.
Passammo quindi nelle altre stanze e nel cortiletto, sempre scortati da
un gendarme. L'ispezione ci tenne occupati fino a sera, quando ci
congedammo. Mentre tornavamo a casa, il mio amico si fermò un momento
nella redazione di un quotidiano.
Ho detto che i capricci del mio amico erano molteplici e che je les
ménageais, espressione che non ha un preciso equivalente in altre
lingue. Ora, ad esempio, gli saltò in mente di evitare qualsiasi
discorso che avesse come tema il delitto fino al mezzogiorno
dell'indomani. Fu allora che mi chiese all'improvviso se non avessi
notato niente di peculiare sulla scena del delitto.
C'era qualcosa, nel modo in cui sottolineò la parola «peculiare», che mi
fece rabbrividire, senza che sapessi perché.
«No, niente di peculiare», dissi, «almeno, niente di più di quanto
tutt'e due abbiamo visto pubblicato sul giornale».
«Temo che la "Gazette"», replicò, «non abbia colto tutto l'insolito
orrore della scena. Ma tralasciamo i commenti oziosi della stampa. A me
pare che questo mistero sia considerato insolubile proprio per la
ragione che lo dovrebbe far considerare di più facile soluzione: intendo
dire, il suo carattere outré. La polizia è disorientata dall'apparente
assenza di moventi, non del delitto in sé, ma della sua atrocità. È
sconcertata, inoltre, dall'apparente impossibilità di conciliare le voci
udite nell'alterco con il fatto che, di sopra, non fu trovato nessuno,
tranne Mademoiselle L'Espanaye già cadavere, e che non c'erano vie
d'uscita che potessero sfuggire all'attenzione di quanti salivano le
scale; l'incredibile, assurdo disordine della stanza; il cadavere
issato, a testa in giù, per il camino; la spaventosa mutilazione del
corpo della vecchia signora - tutte queste considerazioni, unitamente a
quelle già menzionate e ad altre di cui non occorre far menzione, sono
bastate a paralizzare le capacità e disorientare il vantato acumen degli
agenti governativi. Sono caduti nel grossolano ma non raro errore di
confondere l'insolito con l'astruso. Ma è appunto seguendo queste
deviazioni dal piano del consueto che la ragione si fa strada, se
possibile, verso il vero. In indagini del tipo di quella che stiamo ora
conducendo, non ci si dovrebbe tanto chiedere "che cosa è avvenuto",
quanto "che cosa è avvenuto che non sia mai avvenuto prima". In realtà,
la facilità con cui arriverò, o sono arrivato, alla soluzione di questo
mistero è direttamente proporzionale a quella che, agli occhi della
polizia, è la sua apparente insolubilità».
Fissai il mio interlocutore con muto sbalordimento.
«Ora io sto aspettando», continuò, guardando verso la porta del nostro
appartamento, «sto aspettando una persona che, sebbene forse non abbia
perpetrato il massacro, deve esservi in qualche modo implicata. Della
parte più atroce del delitto è probabile che sia innocente. Spero di non
andare errato in questa mia supposizione, perché su di essa fondo la mia
speranza di risolvere l'intero enigma. Attendo quest'uomo qui, in questa
stanza, da un momento all'altro. È vero che potrebbe anche non venire,
ma e più probabile che venga. Se viene, sarà necessario trattenerlo,
assolutamente. Ecco le pistole, e tutti e due sappiamo usarle, quando la
situazione lo esige».
Presi le pistole, senza saper bene quel che facevo o credere a quel che
udivo, mentre Dupin continuava, come in un soliloquio. Ho già accennato
a quel suo fare astratto, in simili momenti. Le sue parole erano rivolte
a me; ma la sua voce, pur mantenendosi bassa, aveva il tono che
comunemente si usa parlando a qualcuno che si trova a grande distanza.
Gli occhi, privi di espressione, fissavano solo il muro.
«Che le voci dell'alterco», disse, «udite dalle persone che salivano le
scale, non fossero quelle delle due donne è stato ampiamente provato
dalle deposizioni dei testi. Questo elimina pertanto ogni dubbio circa
l'eventualità che la vecchia signora abbia prima ucciso la figlia, e poi
si sia suicidata. Tocco questo punto soltanto per amore di metodo,
poiché la forza di Madame L'Espanaye sarebbe stata assolutamente impari
al compito di spingere il cadavere della figlia su per il camino così
come venne rinvenuto; e la natura delle ferite sulla sua persona
escludono assolutamente l'ipotesi del suicidio. Il delitto, dunque, è
stato commesso da altri, e sono le voci di questi "altri" che le persone
accorse hanno udito risuonare nella rissa. Esaminiamo ora non il
complesso delle testimonianze, ma quel che v'era di peculiare in quelle
testimonianze. Non ci avete notato nulla di strano?».
Osservai che, mentre tutti i testi si erano trovati d'accordo nel
supporre che la voce roca fosse quella di un francese, v'era grande
diversità di opinioni a proposito della voce stridula o, come uno dei
testimoni l'aveva definita, aspra.
«Quella era la testimonianza», disse Dupin, «non il carattere peculiare
della testimonianza. Voi non avete osservato nulla di particolare.
Eppure c'era qualcosa da osservare. I testi, come avete notato, erano
tutti d'accordo per quanto riguardava la voce roca; su questo punto
erano unanimi. Ma circa la voce stridula, il peculiare consiste non
tanto nel fatto che non fossero d'accordo quanto nel fatto che, tentando
di descriverla, un italiano, un inglese, uno spagnolo, un olandese e un
francese la definissero come la voce di uno straniero. Ciascuno di loro
è certo che non fosse la voce di un connazionale. Ciascuno la paragona,
non alla voce di un individuo di cui conosce la lingua: no, fa
esattamente il contrario. Il francese ritiene che sia la voce di uno
spagnolo, e "avrebbe potuto distinguere qualche parola se avesse
conosciuto lo spagnolo". L'olandese afferma che si trattava della voce
di un francese; ma, notiamo, si legge che, poiché non parla francese,
questo testimone è stato interrogato tramite interprete. L'inglese pensa
che la voce appartenga a un tedesco, e "non sa il tedesco". Lo spagnolo
è "sicuro" che sia una voce di un inglese, ma "giudica unicamente
dall'intonazione" perché "non sa l'inglese". L'italiano crede che
appartenga a un russo, ma "non ha mai avuto a che fare con un russo". E
c'è un altro francese che dissente dal primo e fermamente sostiene che
si tratta della voce di un italiano, ma, "non conoscendo quella lingua",
giudica, come lo spagnolo, dall'intonazione. Ora, dev'essere stata
davvero ben strana e inconsueta quella voce per ispirare tali
testimonianze... Una voce di tal suono che cittadini di cinque grandi
stati europei non riuscivano a riconoscervi nulla di familiare! Ma
potrebbe essere stata, direte voi, la voce di un asiatico, di un
africano. Ma né asiatici né africani abbondano a Parigi; comunque, senza
respingere questa ipotesi, mi limiterò a richiamare la vostra attenzione
su tre punti. La voce è definita da uno dei testimoni "aspra più che
stridula". Da altri due è così definita: "rapida, sconnessa". Nessuno
parla di parole, di suoni che somigliassero a parole.
«Non so», continuò Dupin, «quale impressione io possa aver prodotto fin
qui sulla vostra mente; ma non esito ad affermare che anche da questa
parte delle deposizioni - quella relativa alle due voci, la roca e la
stridula - si possono trarre deduzioni legittime, di per sé sufficienti
a suggerire un sospetto che dovrebbe dare un certo indirizzo
all'ulteriore svolgimento delle indagini su questo mistero. Ho detto
"deduzioni legittime", ma, così dicendo, non ho espresso chiaramente il
mio pensiero. Quel che intendevo è che tali deduzioni sono le uniche
pertinenti, e che il sospetto che da esse inevitabilmente deriva ne è il
solo risultato possibile. Di quale sospetto si tratti, per ora non
voglio dirlo. Desidero soltanto che una cosa vi sia ben chiara: che, per
me, è bastato a dare una forma definita, una direzione precisa alle mie
investigazioni in quella stanza.
«Ritorniamo ora, con l'immaginazione, in quella stessa stanza. Che cosa
ricercheremo per prima cosa? La via d'uscita di cui si servirono gli
assassini. È lecito affermare - non vi pare? - che né io né voi crediamo
in eventi soprannaturali. Madame e Mademoiselle L'Espanaye non sono
state assassinate da spiriti. Gli esecutori del misfatto erano esseri
materiali, e sono fuggiti materialmente. Ma come? Fortunatamente, questo
punto ammette un solo tipo di ragionamento, ed è questo che deve
necessariamente condurci a una conclusione definitiva. Esaminiamo, una
per una, le possibili vie d'uscita. È ovvio che gli assassini erano
nella stanza in cui venne trovata Mademoiselle L'Espanaye, o almeno
nella stanza attigua, quando le persone accorse salivano le scale. Solo
qui, in queste due stanze, dobbiamo dunque cercare le vie d'uscita. Gli
agenti hanno esaminato i pavimenti, i soffitti, la muratura delle
pareti, in ogni direzione. Nessuna via d'uscita segreta avrebbe potuto
sfuggire a così scrupolosa indagine. Ma non fidandomi dei loro occhi, ho
guardato con i miei. Bene, uscite segrete non ce n'erano. Entrambe le
porte che dalle stanze portano al corridoio erano ben chiuse, con le
chiavi all'interno. Passiamo ai camini. Per otto-dieci piedi sopra il
focolare, sono di ampiezza normale, ma più su, per tutto il resto della
loro lunghezza, neppure il corpo di un grosso gatto riuscirebbe a
passare. Provata l'assoluta impossibilità di fuggire per le vie testé
indicate, non ci restano che le finestre. Da quelle della stanza che dà
sulla facciata nessuno avrebbe potuto uscire senza essere notato dalla
folla radunatasi nella strada. Pertanto, gli assassini devono essere
passati da quelle della stanza sul retro. Ora, giunti a questa
conclusione in modo così inequivocabile, non abbiamo il diritto, in
quanto raziocinatori, di respingerla sulla base della sua apparente
impossibilità. Ci resta solo da provare che questa apparente
"impossibilità" in realtà non è tale.
«Nella stanza ci sono due finestre. Una di esse non è ostruita dai
mobili ed è completamente visibile. La parte inferiore dell'altra è
nascosta alla vista dalla testiera del massiccio letto che vi è
appoggiata contro. La prima venne trovata saldamente chiusa
dall'interno. Ha resistito a tutti gli sforzi di coloro che hanno
tentato di aprirla. Sulla sinistra del telaio, era stato praticato con
un succhiello un grosso foro, in cui si trovò conficcato, fin quasi alla
capocchia, un robusto chiodo. Esaminando l'altra finestra, si è trovato
un chiodo analogo, infisso nello stesso modo; e anche qui l'energico
tentativo di sollevare il telaio è fallito. Così la polizia si è
convinta che la fuga non poteva essere avvenuta per di lì. E, di
conseguenza, ha ritenuto superfluo togliere i chiodi e aprire le
finestre.
«Il mio esame è stato un po' più minuzioso, proprio per la ragione che
ho dato poc'anzi: perché era su questo punto, lo sapevo, che occorreva
provare che ogni apparente "impossibilità" in realtà non è tale.
«Procedetti a ragionare così, a posteriori. Gli assassini erano
certamente fuggiti per una di queste finestre. In tal caso, non potevano
aver richiuso i telai delle finestre dall'interno, così come furono
trovate; considerazione, questa, tanto ovvia che arrestò ogni indagine
della polizia in quella direzione. Eppure i telai erano chiusi. Dunque,
dovevano avere la possibilità di chiudersi da sé. No, non si scappa: la
conclusione era questa. Mi accostai alla finestra non ostruita, con
qualche difficoltà tolsi il chiodo e tentai di sollevare il telaio. Come
avevo previsto, resisté a tutti i miei tentativi. Ora lo sapevo: doveva
esserci una molla nascosta; e questa conferma della mia idea mi convinse
che almeno le mie premesse erano corrette, anche se le circostanze
relative ai chiodi continuavano a essere misteriose.
Una minuziosa ricerca mi rivelò ben presto la molla nascosta. La
premetti e, pago della scoperta, rinunciai ad alzare il telaio.
«Rimisi il chiodo al suo posto e lo esaminai attentamente. Una persona
che fosse passata per questa finestra avrebbe potuto richiuderla, perché
la molla sarebbe scattata, ma... non avrebbe potuto rimettere il chiodo
al suo posto. La conclusione era chiara, e restringeva ulteriormente il
campo delle mie ricerche. Gli assassini dovevano essere fuggiti
dall'altra finestra. Supponendo, dunque, che le molle di entrambi i
telai fossero identiche, come era probabile, doveva esserci una qualche
differenza tra i chiodi, o perlomeno nel modo in cui erano stati
sistemati. Salito sul saccone, guardai attentamente, oltre la testiera,
la seconda finestra. Facendo passare la mano al di là della testiera,
scoprii facilmente la molla e la premetti: era, come avevo supposto,
identica all'altra. Esaminai allora il chiodo: era robusto quanto il
primo, sistemato alla stessa maniera, conficcato fin quasi alla
capocchia.
«Penserete che io fossi disorientato; ma se è questo che pensate, allora
avete certo frainteso la natura delle induzioni. Per usare il gergo
degli sportivi, non mi ero trovato mai "spiazzato", non avevo perso di
vista un solo passaggio. Non mancava un solo anello alla mia catena.
Avevo tenuto dietro all'enigma passo passo, fino alla sua fase
conclusiva, e questa era rappresentata dal chiodo. Come ho detto,
pareva, sotto ogni aspetto, identico a quello dell'altra finestra. Ma
questo fatto, sebbene potesse sembrare conclusivo, non significava
assolutamente nulla di fronte alla considerazione che qui, a questo
punto, terminava la trama dei passaggi. In questo chiodo, mi dissi, deve
per forza esserci qualcosa che non va. Lo toccai; e la capocchia, con un
PEZZo di ferro lungo un quarto di pollice, più o meno, mi rimase tra le
dita. Il resto del chiodo era nel foro, in cui si era spezzato. La
frattura non era recente, dato che gli orli erano incrostati di ruggine,
e sembrava causata da un colpo di martello che aveva parzialmente
incastrato la testa del chiodo nel telaio inferiore, in alto. Cautamente
la ricollocai nell'intacco da cui l'avevo tolta, e la rassomiglianza con
un chiodo intatto era perfetta, la frattura invisibile. Premendo la
molla, alzai piano i piano il telaio di alcuni pollici; la testa del
chiodo sali con esso, restando immobile nella sua sede. Richiusi la
finestra, e di nuovo la rassomiglianza con un chiodo intero apparve
perfetta.
«Fino a questo punto, l'enigma era stato sciolto. L'assassino era
fuggito attraverso la finestra che dava sul letto. Una volta uscito, il
telaio era ricaduto da sé, o forse era stato abbassato di proposito, ed
era poi stato bloccato dalla molla; la polizia aveva scambiato la tenuta
della molla per la presa del chiodo, e ogni ulteriore indagine era stata
ritenuta superflua.
«Altro problema, la discesa. Su questo punto, mi ero chiarito le idee
durante il giro che avevo fatto con voi intorno all'edificio. A cinque
piedi e mezzo dalla finestra in questione corre il cavo di un
parafulmine. Da questo sarebbe stato impossibile per chiunque
raggiungere la finestra, e ancor meno penetrarvi. Tuttavia osservai che
le imposte del quarto piano erano di quel tipo particolare che i
carpentieri di Parigi chiamano ferrades: imposte raramente in uso
oggigiorno, ma che si vedono spesso nelle vecchie case di Lione e di
Bordeaux. Hanno la forma di una comune porta a un solo battente, ma la
parte superiore è a inferriata o a graticcio e offre pertanto un ottimo
appiglio alle mani. Nel nostro caso, le imposte sono larghe un tre piedi
e mezzo. Quando le vedemmo dal retro della casa, erano entrambe
semiaperte, formavano cioè un angolo retto col muro. È probabile che la
polizia abbia esaminato il retro del caseggiato, così come l'ho
esaminato io; ma, se così è stato, gli agenti, guardando queste ferrades
nel senso della larghezza (come devono aver fatto), mancarono di
rilevare proprio tale larghezza o, comunque, non la presero nella dovuta
considerazione. Infatti, una volta convintisi che da questa parte non
v'era via d'uscita, naturalmente vi dedicarono un esame molto
superficiale.
Io invece capii subito che l'imposta della finestra situata dietro al
letto, se aperta per intero, fino a toccare il muro, giungeva a circa
due piedi dal cavo del parafulmine. Era poi evidente che, con un
eccezionale grado di agilità e di coraggio, si sarebbe potuto, dal
parafulmine, entrare nella stanza. Sporgendosi di due piedi e mezzo
(supponiamo sempre che l'imposta fosse completamente spalancata), un
ladro avrebbe potuto afferrarsi saldamente al traliccio dell'inferriata.
Poi, lasciando la presa del parafulmine, puntando bene i piedi contro il
muro, e spiccando un gran balzo, avrebbe potuto far girare l'imposta in
modo da chiuderla e, se immaginiamo che in quel momento la finestra
fosse aperta, avrebbe potuto buttarsi dentro la stanza.
«Vorrei che voi teneste a mente che ho parlato di un eccezionale grado
di agilità come requisito indispensabile per riuscire in un'impresa così
rischiosa e difficile. Mi propongo di dimostrarvi, in primo luogo, che
era possibile compierla; ma in secondo luogo e soprattutto, vorrei che
vi fosse ben chiara la straordinaria, direi quasi soprannaturale agilità
necessaria per effettuarla.
«Direte senza dubbio, usando il linguaggio legale, che per provare la
mia tesi "a fortiori", dovrei sottovalutare e non sottolineare
l'importanza dell'agilità richiesta dall'impresa. Questa può essere la
prassi legale, ma non è il metodo della ragione. Mio obiettivo finale è
solo la verità. Mio proposito immediato è condurvi a stabilire un nesso
tra la straordinaria agilità di cui ho parlato or ora, e quella voce
stranissima, stridula (o aspra) e sconnessa, sulla cui lingua non si
trovarono d'accordo neppure due persone, e nei cui suoni non si riuscì a
cogliere sillabazione di sorta».
A queste parole mi fluttuò nella mente un'idea - vaga, ancora informe -
di quel che intendeva Dupin. Mi pareva di essere alla soglia della
comprensione, pur senza la capacità di comprendere, così come a volte
gli uomini si trovano alla soglia della memoria, senza riuscire, alla
fine, a ricordare. Il mio amico riprese il suo discorso.
«Avrete notato», disse, «che ho spostato il problema dalla via d'uscita
alla via d'entrata. Era mia intenzione suggerire l'idea che tanto
nell'una che nell'altra la maniera, il percorso siano stati gli stessi.
Ma ritorniamo ora all'interno della stanza. Esaminiamone l'aspetto, così
come si presentò. Si è detto che i cassetti del bureau sono stati messi
sottosopra, e tuttavia numerosi capi di vestiario non erano stati
asportati. Una conclusione assurda. È una semplice supposizione, e molto
sciocca: nient'altro. Come possiamo sapere se i capi di vestiario
trovati nei cassetti non fossero proprio tutto ciò che i cassetti
avevano contenuto? Madame L'Espanaye e sua figlia conducevano una vita
molto ritirata... non vedevano nessuno... non uscivano che raramente...
non avevano bisogno di cambiarsi spesso d'abito.
E gli abiti rinvenuti erano, quantomeno, di quella buona qualità che si
può presumere possedessero. Se il ladro ne aveva preso qualcuno, perché
non aveva preso i migliori? Perché non li aveva presi tutti? Insomma,
perché ha abbandonato quattromila franchi in oro per caricarsi di un
fagotto di biancheria? Perché l'oro è stato abbandonato, lasciato lì.
Quasi tutta la somma menzionata da Monsieur Mignaud, il banchiere, è
stata ritrovata nelle borse, sul pavimento. Vorrei pertanto che
scacciaste dalla mente l'idea strampalata del movente, spuntata nel
cervello degli agenti di polizia, in seguito a quelle deposizioni che
parlano di denaro consegnato sulla porta di casa. Coincidenze dieci
volte più straordinarie di questa (consegna del denaro
e assassinio commesso tre giorni dopo la medesima) accadono a ciascuno
di noi in ogni momento della nostra vita, senza che ci facciamo gran
caso. In generale, le coincidenze costituiscono un grosso scoglio per
quei pensatori che, a causa della loro formazione, nulla sanno della
teoria delle probabilità,
teoria alla quale le più insigni conquiste della ricerca umana devono le
loro delucidazioni più insigni. Nel nostro caso, se l'oro fosse
scomparso, il fatto di essere stato consegnato tre giorni prima avrebbe
suggerito qualcosa di più di una coincidenza. Avrebbe confermato
l'ipotesi del movente. Ma, date le effettive circostanze del caso, se
supponiamo che l'oro fosse il movente della strage, dobbiamo anche
immaginare che il suo esecutore fosse un idiota indeciso sul da farsi da
dimenticare e l'oro e il movente insieme.
«Ora, tenendo bene a mente i punti sui quali ho richiamato la vostra
attenzione - quella voce strana, l'agilità inconsueta e la stupefacente
assenza di movente in un delitto così singolarmente atroce - esaminiamo
appunto il massacro. Abbiamo una donna strangolata con le mani, e spinta
su per il camino a testa in giù. Gli assassini comuni non usano questi
metodi, per uccidere. E meno ancora trattano così il corpo di una
persona uccisa. Nel modo in cui il cadavere è stato spinto su per il
camino, c'è, lo ammetterete, qualcosa di eccessivamente outré, qualcosa
di incompatibile con le nostre consuete idee del modo di agire umano,
anche quando supponiamo che si tratti dei più depravati fra gli uomini.
Pensate, poi, quanta forza ci deve essere voluta per spingere così
brutalmente il corpo su per quell'apertura, così che gli sforzi
congiunti di parecchie persone riuscirono, e a fatica, a tirarlo giù!
«Passiamo ora agli altri indizi attestanti l'impiego di una forza
assolutamente prodigiosa. Sul focolare del camino c'erano ciocche folte
- molto folte - di capelli umani grigi. Erano state strappate dalle
radici. Sapete bene quanta forza sia necessaria per strappare dalla
testa anche venti o trenta capelli in una sola volta. Voi avete veduto,
così come le ho vedute io, queste ciocche di capelli. Le radici (vista
atroce!) erano impastate con frammenti di carne viva dello scalpo: certo
indizio della forza prodigiosa usata per strappare, tutti insieme, forse
mezzo milione di capelli. La gola della vecchia signora non era stata
solo tagliata: la testa era stata staccata nettamente dal corpo, e
l'arma era un semplice rasoio. Vorrei che vi soffermaste anche sulla
brutale ferocia di questi atti. Non parlerò delle ecchimosi sul corpo di
Madame L'Espanaye. Monsieur Dumas e il suo insigne collega, Monsieur
Etienne,
hanno affermato che sono state prodotte da qualche arma non puntuta; e
fin qui i due signori sono nel vero. Lo strumento non puntuto fu,
evidentemente, il selciato del cortile, sul quale la vittima era
piombata dalla finestra che, all'interno, dava sul letto. Questa idea,
per semplice che possa sembrare ora, sfuggi agli uomini della polizia
per la stessa ragione per cui gli sfuggì l'ampiezza delle imposte:
perché, per via della faccenda dei chiodi, le loro facoltà percettive
restavano ermeticamente chiuse all'ipotesi che le finestre fossero mai
state aperte.
«Se ora, in aggiunta a tutto ciò, avete debitamente riflettuto sul
disordine davvero strano della stanza, siamo arrivati al punto di poter
combinare queste idee: agilità stupefacente, forza sovrumana, brutale
ferocia, massacro senza movente, grotesquerie di un orrore assolutamente
incompatibile con la natura umana, voce di tonalità estranea alle
orecchie di uomini di molte nazioni, e priva di qualsiasi sillabazione
distinta o intelligibile. Quale risultato ne consegue, dunque? Quale
impressione ho fatto sulla vostra immaginazione?».
Mentre Dupin mi poneva questa domanda, un brivido mi corse per tutto il
corpo.
«È stato un pazzo a far questo», dissi, «qualche pazzo furioso fuggito
da una Maison de Santé delle vicinanze».
«Sotto certi aspetti», replicò, «la vostra idea non è assurda. Ma non
risulta che le voci dei pazzi, anche in preda al più sfrenato parossismo
si possano paragonare a quella voce peculiare, udita sulle scale. I
pazzi hanno pure una nazionalità, e la loro lingua, per quanto
incoerente nelle parole, presenta sempre una coerenza di sillabazione.
Inoltre, i capelli di un pazzo non sono come quelli che tengo ora in
mano. Ho strappato questo piccolo ciuffo dalle dita rigide e contratte
di Madame L'Espanaye. Ditemi che cosa ne pensate».
«Dupin!», esclamai, completamente sconvolto, «ma questi non sono
capelli, non sono normali... non sono capelli umani».
«Non ho asserito che lo siano», disse; «ma, prima di stabilire questo
punto, vorrei che deste un'occhiata allo schizzo che ho tracciato su
questo PEZZo di carta. È un fac-simile di quanto in una testimonianza
viene descritto come "lividi nerastri e marcate incisioni di unghie"
sulla gola di Mademoiselle L'Espanaye, e in un'altra (dei signori Dumas
e Etienne), come una serie di lividi, evidentemente causati dalla
pressione delle dita!».
«Noterete», continuò il mio amico, stendendo il foglio sul tavolo
davanti a noi, «che il disegno dà l'idea di una presa forte e
continuata. Non c'è segno di momentaneo allentamento. Ciascun dito ha
mantenuto, probabilmente fino alla morte della vittima, la terribile
presa nel punto dove, all'inizio, era penetrato. Ora provate a fissare
tutte le vostre dita, contemporaneamente, nelle impronte, così come le
vedete».
Tentai: invano.
«Forse», disse Dupin, «non stiamo facendo questa prova alla maniera
giusta. Il foglio di carta è disteso su una superficie piana, mentre la
gola umana è cilindrica. Ecco un piccolo ceppo di legno la cui
circonferenza corrisponde più o meno a quella di un collo. Avvolgeteci
attorno il disegno, rifate la prova».
Così feci, ma la difficoltà era ancora più evidente di prima.
«Queste», dissi, «non sono impronte di mano umana».
«Ora», riprese Dupin, «leggete questo brano di Cuvier».
Si trattava di una relazione minuziosa, anatomica e descrittiva, del
grande orang-outang fulvo delle isole indo-orientali. La statura
gigantesca, la forza e l'agilità portentose, la selvaggia ferocia e le
capacità imitative di questi mammiferi sono ben note a tutti. Di colpo,
intesi a fondo tutto l'orrore del massacro. «La descrizione delle dita»,
dissi, quando ebbi finito di leggere, «corrisponde esattamente a questo
disegno. Nessun animale, tranne l'orang-outang della specie qui
menzionata, avrebbe potuto lasciare delle impronte come quelle da voi
disegnate. Anche questo ciuffo di peli fulvi è identico al pelame della
bestia di Cuvier. Ma non riesco a capire i particolari di questo orrendo
mistero. Inoltre, le voci udite nell'alterco erano due, e una di queste
era, indi scutibilmente, la voce di un francese».
«Vero; e ricorderete un'espressione attribuita quasi all'unanimità dai
testimoni proprio a quella voce: "mon Dieu!". Queste due parole, date le
circostanze, sono state giustamente interpretate da uno dei testimoni
(Montani, il pasticciere), come un'espressione di protesta o di
supplica. Su queste due parole pertanto ho soprattutto basato le mie
speranze di risolvere l'enigma. Un francese sapeva del delitto. È
possibile - anzi, e assai più che probabile - che per quanto riguarda i
fatti di sangue avvenuti, egli sia innocente; che, cioè, non vi abbia
avuto parte. Può darsi che l'orang-outang gli sia sfuggito. Può darsi
che lo abbia inseguito fino a quella stanza; ma, nelle terribili
circostanze che seguirono, non ha potuto ricatturarlo. La belva è
tuttora in libertà. Non insisterò su queste congetture - perché non ho
il diritto di chiamarle altrimenti - dal momento
che le ombre di riflessione su cui si basano sono così poco consistenti
che il mio intelletto riesce a stento a penetrarle, e non posso dunque
pretendere di renderle chiaramente comprensibili ad altri. Chiamiamole
dunque congetture, e trattiamole come tali. Se il francese in questione
è davvero, come suppongo, innocente di tanta atrocità, questo annuncio
che la scorsa notte, mentre tornavamo a casa, ho lasciato alla redazione
di "Le Monde", un giornale che si occupa di questioni marittime e molto
letto dai marinai, ce lo porterà a casa nostra».
Mi porse un giornale, e lessi:
«CATTURATO. Nel Bois de Boulogne all'alba del ... corrente [la mattina
del delitto], un grosso orang-outang fulvo della specie del Borneo. Il
proprietario, identificato come un marinaio appartenente a una nave
maltese, potrà rientrare in possesso dell'animale dopo che lo avrà
identificato e avrà rimborsato le spese per la cattura e il
mantenimento. Rivolgersi al n. ... Rue..., Faubourg Saint-Germain...
terzo piano».
«Ma come è possibile», chiesi, «che sappiate che si tratta di un
marinaio e appartenente a una nave maltese?».
«Non è che lo sappia», disse Dupin, «non ne sono certo. Qui però c'è un
PEZZo di nastro che, a giudicare dalla forma e dallo strato d'unto che
lo ricopre, è stato evidentemente usato per legare i capelli in una di
quelle lunghe queues che tanto piacciono ai marinai. Non solo, ma questo
è un nodo che pochi, a parte i marinai, sanno fare, e che è
caratteristico dei maltesi. Ho trovato il nastro ai piedi del
parafulmine. Ora, non poteva appartenere a nessuna delle vittime. E se,
dopo tutto, mi fossi sbagliato nel dedurre da questo nastro che il
francese era un marinaio appartenente a una nave maltese, non avrei
provocato nessun danno dicendo quel che ho detto nell'annuncio. Se sono
in errore, si limiterà a supporre che io sia stato sviato da qualche
circostanza che non si darà la pena di indagare. Ma se ho ragione,
allora è un grosso punto a mio vantaggio. Il francese, che è a
conoscenza del delitto, anche se innocente, sarà ovviamente riluttante a
rispondere all'annuncio e
a richiedere la restituzione dell'orang-outang. Ragionerà a questo modo:
"Sono innocente; sono povero; il mio orang-outang è di gran valore - per
uno nelle mie condizioni è di per sé una ricchezza - perché dovrei
perderlo per paura di un pericolo, una paura magari infondata? È qui, a
portata di mano. L'hanno trovato nel Bois de Boulogne, a grandissima
distanza dal luogo del massacro. Come si potrebbe mai sospettare che sia
stato un animale bruto a commettere un tale delitto? La polizia è
disorientata, non e riuscita a trovare il benché minimo indizio. Se
anche risalissero fino all'animale, sarebbe impossibile provare che io
sono a conoscenza del delitto, o incriminarmi per questo. Soprattutto,
sono conosciuto. Chi ha messo l'annuncio mi indica come il proprietario
dell'animale. Non posso sapere con certezza fino a che punto sappia. Se
dovessi rinunciare a rivendicare una proprietà di così grande valore,
quando si sa che sono io a possederla,
come minimo attirerei i sospetti sull'animale.
Non è mio interesse far convergere l'attenzione o su di me o sulla
bestia. Risponderò all'annuncio, mi riprenderà l'orang-outang, e lo
terrò rinchiuso finché l'interesse per quest'affare non si sia
esaurito..."».
In quel momento udimmo un passo per le scale.
«State pronto con le pistole», disse Dupin, «ma non fatene uso, e non
mostratele finché non ve ne do il segnale».
Il portone era stato lasciato aperto, il visitatore era entrato senza
suonare, e aveva salito qualche gradino della scala. Ora però parve
esitare. Subito dopo lo udimmo scendere. Dupin stava dirigendosi
rapidamente verso la porta, quando quello riprese a salire. Non tornò
indietro, questa volta, ma proseguì con decisione e bussò alla porta
della nostra stanza.
«Avanti!», fece Dupin in tono allegro e cordiale.
Entrò un uomo. Era evidentemente un marinaio: un tipo alto, forte,
muscoloso, con una cert'aria spavalda: simpatica, nel complesso. Il
viso, abbronzatissimo, era per più di metà nascosto da favoriti e
mustachio. Aveva con sé un grosso bastone di legno di quercia, ma non
sembrava altrimenti armato. Fece un goffo inchino e disse «buona sera»
in francese, con un accento che, sebbene un po' imbastardito, indicava
ancora sufficientemente l'origine parigina.
«Sedetevi, amico», disse Dupin. «Suppongo che siate venuto per l'orang-outang.
Parola mia, quasi ve lo invidio; uno splendido animale, senza dubbio di
gran pregio. Quanti anni credete che abbia?».
Il marinaio trasse un lungo respiro, con l'aria di un uomo che si sia
liberato da un peso insopportabile, e poi rispose, con voce fattasi
sicura:
«Non saprei... ma non può avere più di quattro o cinque anni. L'avete
qui?».
«Oh, no; non avevamo un posto adatto per tenerlo qui. Si trova in una
scuderia di Rue Dubourg, qui vicino. Potrete riaverlo in mattinata.
Naturalmente, siete in grado di comprovarne la proprietà?».
«Certamente, signore».
«Mi dispiacerà separarmene», disse Dupin.
«Non voglio che vi siate preso tutto questo disturbo per niente,
signore», disse l'uomo. «Non lo pretenderei mai. Sono dispostissimo a
pagare una ricompensa per il ritrovamento dell'animale... voglio dire,
una ricompensa ragionevole».
«Bene», replicò il mio amico, «più che giusto, direi. Fatemici pensare!
Che cosa mi spetta? Oh, ecco, la mia ricompensa sarà questa. Mi darete
tutte le informazioni di cui siete in possesso su quei delitti della Rue
Morgue».
Dupin disse queste ultime parole con voce molto bassa, molto calma. E
con altrettanta calma, andò alla porta, la chiuse a chiave, e si mise la
chiave in tasca. Trasse quindi una pistola di sotto la giacca, e senza
la minima agitazione la depose sul tavolo. Il marinaio si fece rosso in
volto come se fosse lì lì per soffocare. Balzò in piedi e afferrò quel
suo randello; ma dopo un attimo, ricadde a sedere, scosso da un violento
tremito, la morte sul volto.
«Amico mio», disse Dupin con voce affabile, «voi vi allarmate senza
ragione, ve l'assicuro. Non vogliamo farvi del male. Vi do la mia parola
d'onore di gentiluomo e di francese che non intendiamo nuocervi. So
benissimo che siete innocente delle atrocità della Rue Morgue. Tuttavia
questo non significa che non vi siate in qualche modo implicato. Da
quanto vi ho detto, dovete capire che per questa faccenda mi sono valso
di mezzi di informazione che mai potreste immaginare. Ora, le cose
stanno così. Voi non avete fatto nulla che avreste potuto evitare:
nulla, certamente, che vi renda colpevole. Non vi siete nemmeno reso
colpevole di furto, quando avreste potuto rubare impunemente. Non avete
nulla da nascondere. Non avete motivo di nascondere nulla. D'altra
parte, siete tenuto da ogni principio d'onore a confessare tutto ciò che
sapete. Un innocente è ora in prigione, accusato di un delitto di cui
voi potete rivelare l'autore».
Mentre Dupin pronunciava queste parole, il marinaio aveva recuperato in
gran parte la sua presenza di spirito, ma la sua baldanza iniziale era
del tutto svanita.
«Che Dio mi aiuti», disse dopo una breve pausa. «Voglio dirvi tutto ciò
che so di quest'affare; ma non mi aspetto che crediate nemmeno la metà
di quanto vi dirò; sarei davvero sciocco, se ci sperassi. Eppure, sono
innocente, e mi toglierò questo peso dal cuore, anche se ne andasse
della mia vita».
Questo è, in sostanza, ciò che disse. Aveva fatto di recente un viaggio
nell'Arcipelago Indiano. Un gruppo di marinai, di cui egli faceva parte,
era sbarcato a Borneo, e si era inoltrato nell'interno per una gita di
piacere. Lui e un suo compagno avevano catturato l'orang-outang. Morto
il compagno, l'animale era diventato di sua esclusiva proprietà. Dopo
molti guai causati dall'indomabile ferocia del prigioniero durante il
viaggio di ritorno, era riuscito alla fine a collocarlo al sicuro nel
suo alloggio di Parigi, dove, per non attirare su di sé l'imbarazzante
curiosità dei vicini, l'aveva tenuto scrupolosamente segregato, in
attesa che guarisse di una ferita al piede causata, a bordo della nave,
da una scheggia di legno. Dopodiché, si proponeva di venderlo.
Tornando a casa da una bisboccia di marinai la notte del delitto, o per
meglio dire all'alba, trovò che la belva si era insediata nella sua
camera da letto, in cui aveva fatto irruzione da uno stanzino attiguo,
nel quale l'aveva relegata, ritenendola al sicuro. Con un rasoio in mano
e completamente insaponato, l'orang-outang era seduto davanti a uno
specchio, e tentava di radersi, come probabilmente aveva visto fare al
suo padrone, osservandolo attraverso il buco della serratura dello
stanzino. Terrorizzato alla vista di un'arma tanto pericolosa nelle mani
di un animale tanto feroce e tanto abile nell'usarla, l'uomo, per
qualche momento, era rimasto in dubbio sul da farsi. Si era però
abituato a domare la belva, anche nei suoi accessi più furiosi, facendo
uso della frusta, e a questa ora fece ricorso. Ma alla vista della
frusta, l'orang-outang balzò verso la porta della stanza, si precipitò
giù per le scale e di qui, attraverso una finestra malauguratamente
aperta, nella strada.
Il francese lo inseguì disperato; la scimmia, sempre col rasoio in mano,
di tanto in tanto si fermava a guardare indietro e a far gesti al suo
inseguitore, finché questi le era quasi vicino. Poi riprendeva a
fuggire. In questo modo l'inseguimento durò per un bel PEZZo . Le strade
erano immerse in un silenzio profondo, poiché erano quasi le tre del
mattino. Sboccando per una stradetta sul retro della Rue Morgue,
l'attenzione del fuggiasco fu attratta da una luce accesa che usciva
dalla finestra aperta della camera di Madame L'Espanaye, al quarto piano
della casa. Si precipitò verso l'edificio, notò il cavo del parafulmine,
vi si arrampicò con un'agilità incredibile, afferrò l'imposta che era
aperta per intero, fino a toccare il muro, e in questo í modo si
proiettò all'interno, proprio sopra la testiera del letto.
Tutta quanta la manovra non richiese nemmeno un minuto. L'imposta venne
riaperta con un calcio dall'orang-outang quando entrò nella stanza.
Il marinaio, intanto, era insieme contento e perplesso. Ora aveva buone
speranze di ricatturare l'animale, poiché difficilmente avrebbe potuto
uscire dalla trappola in cui s'era cacciato, se non affidandosi al cavo
del parafulmine, dove egli avrebbe potuto intercettarlo quando fosse
sceso. D'altra parte, quello che poteva combinare dentro la casa era
motivo, e grave, di preoccupazione. Quest'ultima riflessione indusse
l'uomo a riprendere l'inseguimento. Non è difficile, specie per un
marinaio, salire lungo il cavo di un parafulmine; ma quando egli giunse
all'altezza della finestra, che si trovava, piuttosto lontana, sulla sua
sinistra, non gli fu possibile proseguire; il massimo che gli riuscì di
fare fu sporgersi quanto più poteva, in modo da dare un'occhiata
all'interno della stanza. La vista che gli si offrì per poco non gli
fece abbandonare la presa, tanto lo empì d'orrore. Fu allora che si
levarono nella notte le urla orrende che avevano destato dal sonno gli
abitanti della Rue Morgue.
Madame L'Espanaye e sua figlia, già abbigliate per la notte, erano
evidentemente occupate a riordinare delle carte nella cassaforte di
ferro di cui si è parlato, e che era stata spinta in mezzo alla stanza.
Era aperta, e il contenuto giaceva lì vicino, sul pavimento. Le vittime
dovevano essere sedute dando di spalle alla finestra; e a giudicare dal
tempo trascorso dall'ingresso della belva alle urla, pare probabile che
di essa non si accorgessero immediatamente. Il rumore dell'imposta che
sbatteva l'avevano certo attribuito al vento.
Quando il marinaio guardò dentro la stanza, la bestia gigantesca aveva
afferrato Madame L'Espanaye per i capelli (che erano sciolti, perché
stava pettinandosi) e le brandiva sul viso il rasoio, imitando i gesti
di un barbiere. La figlia giaceva a terra, immobile; era svenuta. Le
grida della vecchia signora, il suo dibattersi (e fu allora che i
capelli le vennero strappati dalla testa) ebbero come effetto di mutare
in furore i propositi probabilmente pacifici dell'orang-outang. Con un
solo strappo deciso del suo braccio nerboruto le staccò la testa dal
corpo. La vista del sangue mutò il furore in frenesia. Digrignando i
denti, con gli occhi fiammeggianti, si buttò sul corpo della figlia,
affondandole nella gola i suoi terribili unghioni, e tenendo la presa
finché ella non spirò. Il suo sguardo smarrito e feroce cadde in quel
momento sulla testiera del letto, dietro la quale si scorgeva,
irrigidito dall'orrore, il volto del padrone. La furia della belva, che
senza dubbio aveva ancora in mente la temutissima frusta, si tramutò
istantaneamente in paura. Consapevole di meritare una punizione, pareva
ansioso di nascondere le sanguinose tracce del suo misfatto e balzava
qua e là per la stanza in un parossismo di agitazione nervosa,
rovesciando e fracassando i mobili mentre si muoveva, e strappando il
cassone dal letto. Alla fine, prima afferrò il cadavere della figlia, e
lo spinse su per il camino, come venne poi trovato; poi, quello della
vecchia signora, che immediatamente scaraventò giù dalla finestra, a
capofitto.
Quando la scimmia si avvicinò alla finestra con il suo fardello
straziato, il marinaio si ritrasse inorridito verso il cavo e,
scivolando giù più che discendendo, fuggì subito a casa, temendo le
conseguenze del massacro e, atterrito com'era, felice di abbandonare
ogni preoccupazione per il destino dell'orang-outang. Le parole udite
dalle persone che salivano le scale erano le esclamazioni d'orrore e di
spavento del francese, mescolate ai selvaggi mugolii della belva.
Non ho granché da aggiungere. L'orang-outang deve essere fuggito dalla
stanza servendosi del cavo, poco prima che venisse abbattuta la porta.
Passando per la finestra, deve averla richiusa. Venne successivamente
catturato dal suo stesso proprietario, che ne ricavò una ragguardevole
somma dal jardin des Plantes. Le Bon fu subito rimesso in libertà,
quando esponemmo com'erano andate le cose - con l'aggiunta di qualche
commento di Dupin - al bureau del Prefetto di Polizia. Questo
funzionario, quantunque ben disposto verso il mio amico, non riuscì a
nascondere il suo disappunto per la piega che aveva preso l'affare, e si
lasciò andare a qualche sarcasmo sull'opportunità che ciascuno badi ai
fatti propri.
«Lasciatelo dire», fece Dupin, che non aveva ritenuto opportuno
ribattere. «Lasciatelo chiacchierare: gli servirà ad alleggerirsi la
coscienza. Mi basta di averlo battuto sul suo terreno. Tuttavia, il
fatto che non abbia saputo trovare la soluzione di questo mistero non è
poi così straordinario come suppone; perché, a dire il vero, il nostro
amico Prefetto è un po' troppo scaltro per essere profondo. La sua
saggezza manca di stamen. È tutto testa e niente corpo, come le immagini
della dea Laverna: o, al più, tutto testa e spalle, come un merluzzo.
Ma, in fondo, è un brav'uomo. Mi piace specialmente per quel suo tocco
di magistrale ipocrisia grazie al quale si è guadagnata la sua
reputazione di uomo geniale.
Intendo, quel suo modo
di negare cio' che e' e spiegare cio' che non e' .
nier ce qui
est
et d'expliquer ce qui
n'est pas
Rousseau, Nouvelle Heloise.
negare cio' che è
e spiegare cio' che non è
Inglese
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