dino buzzati traverso
L'amore è una maledizione che piomba addosso e resistere è impossibile . . . un amore telefonò alla
signora Ermelina senta potrei venire
questo pomeriggio ? dicA, dica . da incipit . . Credo di avere fatto,
non ridere, una cosa indiscutibile per la forza della verità
e del dolore . Al punto in cui sono giunto,
all’età che ho, questa, mi rendo conto, è la prova
decisiva . O ci riesco in pieno,
o sono morto per sempre . . . E che dire del
romanzo Un amore che io mi ostino a credere uno dei più bei libri di
Buzzati? In un mio vecchio articolo del ‘51 avevo affermato che a
Buzzati mancava il compiacimento del peccato, il gusto di pescare nel
torbido. Dopo parecchi anni Buzzati mi ha inflitto una dura smentita
della quale dovrei dolermi, senza peraltro riuscirvi. Qui il torbido c'è
ma non credo che Buzzati lo abbia cercato assaporando ogni parola, ogni
situazione. Il tema del libro è ancora la morte, non la morte fisica
bensì la morte morale, la depravazione. L'abisso chiede, reclama, un
abisso sempre peggiore e non c'è alcun possibile giudice che possa
decretare una sentenza. Si è tanto parlato di un Buzzati favolista,
allegorista e non senza buone ragioni. Ma qui il poeta è anche un
clinico e un vivisezionatore del cuore umano. La storiella che l’arte
giustifica tutto è un’invenzione dei giuristi preoccupati di non mandare
in galera molti ottimi o pessimi scrittori. Non l’ha certo inventata
Buzzati e nemmeno ne aveva bisogno perché anche una sola lacrima di
pietà avrebbe reso indecente un libro che è soltanto vero, terribilmente
vero. . Solo alcuni sanno cosa sia l’amore. Se no, ce ne accorgeremmo. Quando arrivano queste cose, uno non può controllarsi, e l’amore si rivela, si manifesta. Non dico che non ce ne siano, di amori, ma sono pochi. Se uno ama una donna, è logico che voglia vincere a tutti i costi, magari mentendosi, come fa Antonio Dorigo (il protagonista del libro). E poi il mio libro finisce in bellezza. Non è calcolato, non è costruito come Il grande ritratto. L’ho scritto, se posso dirlo, con la stessa spontaneità del Deserto dei Tartari. Esprime il mio stato d’animo, ma un po’ aggravato in tinte. Ma non ho voluto scrivere un libro audace, magari per seguire la corrente. Lo avrei scritto anche se quel genere che va di moda fosse morto da un pezzo … Se è lecito essere un po’ presuntuosi, dirò che c’è tanta autenticità che, sinceramente, in altri libri non conosco. . D'improvviso si rende conto di quello che forse sapeva già ma finora non
ha mai voluto crederci. Sì certo, complessivamente una storia ridicola, una vicenda come tante, banale, storta, comica, meschina . Era tanto semplice capirlo, non poteva che finire così, su, coraggio, buonanotte, a domani, non ne vorrà fare una tragedia spero, raddrizzi il nodo della cravatta piuttosto . Una doverosa risata . buonanotte . .
Come se qualcosa lo avesse toccato
dentro
.
Come se quella ragazza fosse diversa dalle solite
. Come
se fra loro due dovessero succedere molte altre cose
. Come se
lui ne fosse uscito differente .
Come se Laide incarnasse nel modo più perfetto e
intenso il mondo avventuroso e proibito .
Come se ci fosse stata una predestinazione
. Come quando uno,
senza alcun particolare sintomo, ha la sensazione di stare per ammalarsi
ma non sa di che cosa né il motivo .
Come quando si ode dabbasso il cigolio del
cancello e la casa è immensa, ci abitano centinaia di famiglie e
all'ingresso è un continuo andirivieni eppure all'improvviso si sa che
ad aprire il cancello è stata una persona la quale viene a cercarci
. . Più di una volta, aveva constatato la incredibile potenza dell'amore, capace di riannodare, con infinita sagacia e pazienza, attraverso vertiginose catene di apparenti casi, due sottilissimi fili che si erano persi nella confusione della vita, da un capo all'altro del mondo. . Perché lui era stato come pietra legata a una corda e fatta girare più svelto, sempre più svelto, e a farla girare era il vento, era la bufera d’autunno, era la disperazione, l’amore . E così follemente girando, non si distingueva più che forma aveva; era diventato una specie di anello fluido e palpitante . Lui era un cavallo di giostra, e a un tratto la giostra si era messa a girare in modo pazzo, più svelta, sempre più svelta e a farla girare così era lei, era Laide, era autunno, era la disperazione, l’amore . .
Lei perché immemore di tutto, tesa solo ai suoi oscuri calcoli e
capricci, lui perché nulla esisteva al mondo più se non quella ragazzina
dal viso diritto e petulante dai lunghi capelli neri, dal cuore cosa ?
ce l’aveva ? . La donna forse a motivo dell'educazione familiare, gli era parsa sempre una creatura straniera . con una donna non era mai riuscito ad avere la confidenza che aveva con gli amici . La donna era sempre per lui la creatura di un altro mondo, vagamente superiore e indecifrabile .
. Di colpo egli capì che ciò
che dicevano, capì il significato del mondo visibile allorché esso ci fa
restare superati e diciamo “che bello” e qualcosa di grande entra
nell’animo nostro .
Tutta la vita era vissuto senza sospettarne la causa. Solo adesso,
finalmente, si rendeva conto del segreto . Che interesse avrebbe una scogliera, una foresta, un rudere, se non vi fosse implicata una attesa ? E attesa di che se non di lei, della creatura che ci potrebbe fare felici ? Dovunque c’era nascosto il pensiero inconfessato di lei, anche se non sapevamo neppure chi fosse. * La bocca aveva labbra sottili ma rilevate non apertamente sensuali, però maliziose. Il labbro inferiore, relativamente, sporgeva un poco, tanto più che il mento era piccolo, stretto e di profilo rientrante. Non aveva rossetto. La bocca era ferma e tesa, molto piccola in proporzione alla faccia, ma importante. Tutta la faccia era compatta per la tensione estrema della giovinezza. Era una faccia decisa, spiritosa, ingenua, furba, pulita, provocante. Lui si ricordò di una Madonna di Antonello da Messina. Il taglio del volto e la bocca erano identici. La Madonna aveva più dolcezza, certo. Ma lo stesso stampo netto e genuino .* Le donne, anche le meno scaltre, hanno una sensibilità tremenda per avvertire ciò che avviene nell’uomo in certi casi, il misterioso scatto per cui l’animo si accende e brucia e può darsi l’uomo sul momento non se ne accorga neanche e non sospetti ma lei sì e in quel momento stesso sale invincibilmente sul trono, incominciando il delizioso gioco di farlo impazzire .
* C'è, nel motivo popolaresco della musica, semplice come uno stecco eppure carico di secoli, qualcosa che precisamente diceva addio, con potenza d'amore per quello che fu e mai ritornerà e nello stesso tempo un confuso presentimento di cose che un giorno verranno, forse, perché la musica vera è tutta qui nel rimpianto del passato e nella speranza del domani, la quale è altrettanto dolorosa. Poi c'è la disperazione dell'oggi, fatta dell'uno e dell'altra. E fuori di qui altra poesia non esiste .* Quanto meschina sarebbe, di fronte a un grande spettacolo della natura, la nostra esaltazione spirituale se riguardasse soltanto noi e non potesse espandersi verso un’altra creatura . . Lui la amava per se stessa, per quello che rappresentava di femmina, di capriccio, di giovinezza, di genuinità popolana, di malizia, di inverecondia, di sfrontatezza, di libertà, di mistero. Era il simbolo di un mondo plebeo, notturno, gaio, vizioso, scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermentava di insaziabile vita intorno alla noia e alla rispettabilità dei borghesi. Era l’ignoto, l’avventura, il fiore dell’antica città spuntato nel cortile di una vecchia casa malfamata fra i ricordi, le leggende, le miserie, i peccati, le ombre e i segreti di Milano. E benché molti non ci avessero camminato sopra, era ancora fresco, gentile e profumato .
. * Eppure, in quella svergognata e puntigliosa ragazzina una bellezza risplendeva ch'egli non riusciva a definire per cui era diversa da tutte le altre ragazze come lei, pronte a rispondere al telefono. Le altre, al paragone, erano morte. In lei, Laide, viveva meravigliosamente la città, dura, decisa, presuntuosa, sfacciata, orgogliosa, insolente. Nella degradazione degli animi e delle cose, fra suoni e luci equivoci, all'ombra tetra dei condomini, fra le muraglie di cemento e di gesso, nella frenetica desolazione, una specie di fiore ... * ad ogni modo ricordati, cara laide, una cosa molto importante: contrariamente a quello che ti consiglieranno quasi tutti, contro queste bestiacce cattive che forse incontrerai nella vita, l'arma della furberia conta poco; è più facile che tu riesca a sbaragliarle e a metterle in fuga con la semplice bontà. . giovanni garofalo - thevision.com/dino-buzzati - l’amore sincero deve essere libero dai vincoli della società -DB
|
...
|
I GIORNI PERDUTI
|
LA GIACCA STREGATA
Lo scarafaggio
|
Rincasato tardi, schiacciai uno scarafaggio che in corridoio mi fuggiva tra i piedi (resto' la' nero sulla piastrella) poi entrai nella camera. Lei dormiva. Accanto mi coricai, spensi la luce, dalla finestra aerta vedevo un pezzo di muro e di cielo. Era caldo, non riuscivo a dormire, vecchie storie rinascevano dentro di me, dubbi anche, generica sfiducia nel domani. Lei diede un piccolo lamento. "Che cos'hai?" chiesi. Lei apri' un occhio grande che non mi vedeva, mormoro': "Ho paura". "Paura di che cosa?" chiesi. "Ho paura di morire." "Paura di morire? E perche'?" Disse:"Ho sognato ..." Si strinse un poco vicino. "Ma che cosa hai sognato ?" "Ho sognato ch'ero in campagna, ero seduta sul bordo di un fiume e ho sentito delle grida lontane ... e io dovevo morire." "Sulla riva di un fiume?" "Si" disse "sentivo le rane ... cra cra facevano." "E che ora era?" "Era sera, e ho sentito gridare." "Be', dormi, adesso sono quasi le due." "Le due?" ma non riusciva a capire, il sonno l'aveva gia' ripresa. Spensi la luce e udii che qualcuno rimestava giu' in cortile. Poi sali' la voce di un cane, acuta e lunga; sembrava che si lamentasse. Sali' in alto, passando dinanzi alla finestra, si perse nella notte calda. Poi si apri' una persiana (o si chiuse?). Lontano, lontanissimo, ma forse mi sbagliavo, un bambino si mise a piangere. Poi ancora l'ululato del cane, lungo piu' di prima. Io non riuscivo a dormire. Delle voci d'uomo vennero da qualche altra finestra. Erano sommesse, come borbottate in dormiveglia. Cip, cip, zitevitt, udii da un balcone sotto, e qualche sbattimento d'ali. "Florio!" si udi' chiamare all'improvviso, doveva essere due o tre case piu' in la'. "Florio !" pareva una donna, donna angosciata, che avesse smarrito il figlio. Ma perche' il canarino di sotto si era svegliato? Che cosa c'era?Con un cigolio lamentoso, quasi la spingesse adagio adagio uno che non voleva farsi sentire, una porta si apri' in qualche parte della casa. Quanta gente sveglia a quest'ora. "Ho paura ho paura" si lamento' lei cercandomi con un braccio. "Oh Maria" le chiesi " che cos' hai?" Rispose con una voce sottile: "Ho paura di morire". "Hai sognato ancora ?" lei fece un piccolo si' con la testa. "Ancora quelle grida ?" Fece segno di si'. "E tu dovevi morire?" Si' si', faceva, cercando di guardarmi, le palpebre appiccicate dal sonno. C'e' qualcosa, pensai: lei sogna, il cane urla, il canarino si e' svegliato, gente e' alzata e parla, lei sogna la morte, come se tutti avessero sentito una cosa, una presenza. Oh, il sonno che non mi veniva, e le stelle passavano. Udii distintamente in cortile il rumore di un fiammifero acceso. Perche' uno si metteva a fumare alle tre di notte? Allora per sete mi alzai e uscii di camera a prendere acqua. Accesa la triste lampadina del corridoio, intravidi la macchia nera sulla piastrella e mi fermai, impaurito. Guardai: la macchia nera si muoveva. O meglio se ne muoveva un pezzetto (lei sogna di morire, ulula il cane, il canarino si sveglia, gente si e' alzata, una mamma chiama il figlio, le porte cigolano, uno si mette a fumare e, forse, il pianto di un bambino). Vidi sul pavimento la bestiola nera spiaccicata muovere una zampina. Era quella destra di mezzo. Tutto il resto era immobile, una macchia di inchiostro lasciata cadere dalla morte. Ma la gambina remava flebilmente come per risalire qualche cosa, il fiume delle tenebre forse. Sperava ancora? Per due ore e mezzo della notte -mi venne un brivido- l'immondo insetto appiccicato alla piastrella dalle sue stesse mucillagini viscerali, per due ore e mezzo aveva continuato a morire, e non era finita ancora. Meravigliosamente continuava a morire, trasmettendo con l'ultima zampina un suo messaggio. Ma chi lo poteva raccogliere alle tre di notte nel buio del corridoio di una pensione sconosciuta? Due ore e mezzo, pensai, continuamente su e giu', l'ultima porzione di vita spinta dentro la superstite gambina per invocare giustizia. Il pianto di un bambino -avevo letto un giorno- basta ad avvelenare il mondo. In cuor suo Dio onnipotente vorrebbe che certe cose non succedessero, ma impedirlo non puo' perche' e' stato da lui stesso deciso. Pero' un ombra giace allora su di noi. Schiacciai con la pantofola l'insetto e fregando sul pavimento lo spappolai in una lunga striscia grigia. Allora finalmente il cane tacque, lei nel sonno si quieto' e quasi sembrava sorridesse, le voci si spensero , tacque la madre, nessun sintomo piu' di irrequietezza del canarino, la notte ricominciava a passare sulla casa stanca, in altri punti del mondo la morte si era spostata a gonfiare la sua inquietudine. la boutique del mistero 1968 - bo.astro.it . . SETTE PIANI Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c’era la famosa casa di cura. Aveva un po’ di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi la strada fra la stazione e l’ospedale, portandosi la sua valigetta. Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell’unica malattia. Ciò garantiva un’eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d’impianti. Quando lo scorse da lontano – e lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria Giuseppe Corte ebbe un’ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d’albergo. Tutt’attorno era una cinta di alti alberi. Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini vestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante. Giuseppe Corte si mise subito a letto e, accesa la lampadina sopra il capezzale, cominciò a leggere un libro che aveva portato con sé. Poco dopo entrò un’infermiera per chiedergli se desiderasse qualcosa. Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise volentieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di cura. Seppe così la strana caratteristica di quell’ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l’ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare. Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un’atmosfera omogenea. D’altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto. Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all’istituto un unico fondamentale indirizzo. Quando l’infermiera fu uscita, Giuseppe Corte, sembrandogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la finestra e guardò fuori, non per osservare il panorama della città, che pure era nuova per lui, ma nella speranza di scorgere, attraverso le finestre, altri ammalati dei piani inferiori. La struttura dell’edificio, a grandi rientranze, permetteva tale genere di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la sua attenzione sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e che si scorgevano solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. Nella maggioranza erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli. Il Corte si accorse che a una finestra di fianco alla sua stava affacciato un uomo. I due si guardarono a lungo con crescente simpatia, ma non sapevano come rompere il silenzio. Finalmente Giuseppe Corte si fece coraggio e disse: «Anche lei sta qui da poco?» «Oh no» fece l’altro «sono qui già da due mesi…» tacque qualche istante e poi, non sapendo come continuare la conversazione, aggiunse: «Guardavo giù mio fratello.» «Suo fratello?» «Sì» spiegò lo sconosciuto. «Siamo entrati insieme, un caso veramente strano, ma lui è andato peggiorando, pensi che adesso è già al quarto.» «Al quarto che cosa?» «Al quarto piano» spiegò l’individuo e pronunciò le due parole con una tale espressione di commiserazione e di orrore, che Giuseppe Corte restò quasi spaventato. «Ma son così gravi al quarto piano?» domandò cautamente. «Oh Dio» fece l’altro scuotendo lentamente la testa «non sono ancora così disperati, ma c’è comunque poco da stare allegri.» «Ma allora» chiese ancora il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano «allora, se al quarto sono già così gravi, al primo chi mettono allora?» «Oh, al primo sono proprio i moribondi. Laggiù i medici non hanno più niente da fare. C’è solo il prete che lavora. E naturalmente…» «Ma ce n’è pochi al primo piano» interruppe Giuseppe Corte, come se gli premesse di avere una conferma «quasi tutte le stanze sono chiuse laggiù.» «Ce n’è pochi, adesso, ma stamattina ce n’erano parecchi» rispose lo sconosciuto con un sottile sorriso. «Dove le persiane sono abbassate là qualcuno è morto da poco. Non vede, del resto, che negli altri piani tutte le imposte sono aperte? Ma mi scusi» aggiunse ritraendosi lentamente «mi pare che cominci a far freddo. Io ritorno in letto. Auguri, auguri…» ... Giunse così, per quell’esecrabile errore, all’ultima stazione. Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per la gravità del male, a giudizio anche dei medici più severi, aveva il diritto di essere assegnato al sesto, se non al settimo piano! La situazione era talmente grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignazzare senza ritegno. Disteso nel letto, mentre il caldo pomeriggio d’estate passava lentamente sulla grande città, egli guardava il verde degli alberi attraverso la finestra, con l’impressione di essere giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero veri; finì anzi per convincersene, notando che le foglie non si muovevano affatto. Questa idea lo agitò talmente, che il Corte chiamò col campanello l’infermiera e si fece porgere gli occhiali da miope, che in letto non adoperava; solo allora riuscì a tranquillizzarsi un poco: con l’aiuto delle lenti poté assicurarsi che erano proprio alberi veri e che le foglie, sia pur leggermente, ogni tanto erano mosse dal vento. Uscita che fu l’infermiera, passò un quarto d’ora in completo silenzio. Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo di quel precipizio? Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l’orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall’altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce. la boutique del mistero 1968 - settepiani.com . il mantello Dopo un'interminabile attesa, quando la speranza già cominciava a morire, Giovanni ritornò alla sua casa . Non erano ancora suonate le due, sua mamma stava sparecchiando, era una giornata grigia di marzo e volavano cornacchie . la boutique del mistero . |
***
|
|
in via solferino presso la sede del corriere |
|
|
|
|
BUZZATI SCRITTORE E PITTORE |
I MIRACOLI DI VAL MOREL
|
|
IN QUESTA CASA VISSE DINO BUZZATI |
|
AUTORITRATTO . Sono brutto. Secco, naso pesante, voce ruggine, introverso, nessuna comunicativa, scarso successo con le donne. . Sono quasi visceralmente pessimista. E pensare che non è che questo pessimismo mi sia nato da tristi esperienze. Eppure io ho avuto sempre questa sensazione, come se dovesse succedere qualcosa di triste e di brutto. Soprattutto se io sono in un posto tranquillo e silenzioso, come in campagna, ho come la sensazione che da un momento all’altro debba capitare qualcosa di catastrofico, non so, come un bolide, un meteorite, che piombi sulla Terra e la sfasci. . Sono sempre stato un tipo zelante e scrupoloso: se in una giornata riesco a realizzare bene un lavoro sto meglio, persino fisicamente, provo una specie di liberazione. Mi definirei un doverista. Da ragazzo soltanto l’idea di poter bigiare la scuola mi metteva addosso il terrore. www.dinobuzzati.it . le pagelle di dino buzzati www.ilfoglio.it/non-e-buzzati-che-andava-male-a-scuola www.orizzontescuola.it/dino-buzzati-aveva-6-in-italiano . |
*
Aprile 1945 ricominciano di notte a navigare i lumi. posso finalmente guardare le stelle. a piangere per
la gioia
|
https://youtu.be/Comv7f2DGpw
-
https://youtu.be/s7G_0LAlpd8 8 dicembre 1962 - intervista - incontro con dino buzzati |
Un po’ più in là della tua solitudine
c’è la persona che
ami |
|
Ciascuno di noi forse porta
scritta in una recondita particella del corpo la propria finale condanna . Ma perché andare determinatamente a disseppellirla ? cronache terrestri |
|
|
*
A PROPOSITO DI LAIKA . dino buzzati - corriere dell'Informazione 16-17 novembre 1957
indimenticabile Laika . Di
cani ne ho conosciuti tanti, miei e non miei, grandi piccoli, vecchi,
giovani e non uno manifestò mai qualcosa che possa lontanamente somigliare
all'interesse scientifico. Fedeltà, altruismo, disinteresse, bontà,
pazienza, tenacia, coraggio, puntualità, disciplina, gratitudine, tutte
queste virtù, che noi pratichiamo così di rado, il cane le possiede
interamente. Ma amore per la scienza proprio no .
|
*
bio
Lo scrittore nasce a
Belluno il 16 ottobre 1906. La madre Alba Mantovani è di origine veneziana,
mentre il padre Giulio Cesare appartiene ad un'antica famiglia bellunese. Dino,
malgrado la famiglia viva a Milano per l'impegno professionale del padre
(docente di diritto internazionale all'Università), nasce nella villa San
Pellegrino alle porte della città di Belluno. E' qui che il padre ama tornare
per le lunghe vacanze insieme a tutta la famiglia; è qui che Dino trascorre il
proprio tempo libero da bambino, affezionandosi a luoghi e persone. Per le forti pressioni familiari, consegue la laurea in Giurisprudenza. Ma ancora prima di finire la carriera universitaria, lavora come giornalista presso il quotidiano milanese "Corriere della Sera". Il suo primo ROMANZo , dal titolo "Bàrnabo delle montagne", esce nel 1933, ma già dall'anno precedente pubblica racconti sul settimanale "Il Popolo della Lombardia". Nel 1935 esce con il secondo ROMANZo "Il segreto del Bosco Vecchio".
Dal 1936 scrive, per il "Corriere" e altri periodici, diversi racconti poi
raccolti in "I sette messaggeri" (1942), "Paura alla Scala" (1949), "Il crollo
della Baliverna" (1954), "Sessanta racconti" (1958), "Esperimento di magia"
(1958), "Il colombre" (1966), "Le notti difficili" (1971). .
Films - Il deserto
dei Tartari - Il segreto del bosco vecchio - Il fischio al naso - Barnabo delle
montagne - Un amore -
dal catalogo della
Mostra "Buzzati 1969: il laboratorio di "Poema a fumetti"
http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=308&biografia=Dino+Buzzati
http://it.wikipedia.org/wiki/Dino_Buzzati
bio
A soli quattordici anni rimane orfano dell'amato padre
che si spegne a
causa di un tumore al pancreas.
L'8 dicembre 1966 sposò
Almerina Antoniazzi, la donna che gli aveva ispirato il tormentato "Un amore".
Nel 1971 quando cominciò ad avvertire i sintomi della malattia, un tumore al
pancreas, esattamente come il padre, che lo portò
alla morte. L'8 dicembre Buzzati entrò in clinica
- la madonnina - e si spense il 28 Gennaio del
1972. non volle l'estrema unzione.
...
CRETINETTI non facilissima carriera al corriere - carattere riservato - taciturno e non ambizioso . chiamato ' cretinetti ' da tutti fino a quando avra' l'amicizia di un grande come indro montanelli.
libreriamo.it www.corriere.it/cronista-magico-un-libro-suoi-articoli-il-corriere http://biografieonline.it/biografia.Dino%20Buzzati www.girodivite.it/antenati/xx3sec/_buzzati
bio
Dino Buzzati Traverso nasce il 16 Ottobre 1906 a San Pellegrino, vicino
Belluno, da una famiglia dell'agiata borghesia: il padre insegna Diritto
internazionale all'Università di Pavia, la madre, veneziana, è sorella dello scrittore Dino Mantovani, assai noto nell'ultimo Ottocento. La villa bellunese è
il fulcro della sua infanzia e l'origine dell'universo fanta-reale dello
scrittore, con la sua suggestiva biblioteca, il granaio misteriosamente abitato
dallo spirito di un antico fattore.
italialibri.net
La multiforme opera di Dino Buzzati
- l'arcolaio - mauro
germani
intervista alla
moglie Almerina Buzzati oggi 71 anni
.
Il Corriere della Sera
era la sua casa. Lui la considerava tale - dice la moglie almerina.
lorenzo vigano' - milano.corriere.it - 2015
Nel 1928 Dino Buzzati presenta regolare domanda
d’assunzione al «Corriere della Sera»
che in estate lo manda a chiamare.
Il 10 luglio varca per la prima volta la soglia di via Solferino, e la sera
annota sul diario:
«Oggi sono entrato al
Corriere, quando ne uscirò? - presto, te lo dico io, cacciato come un cane».
ALMERINA LA SPOSA BAMBINA
|
carico di regali |
I
PERCHE' Scrivere per i bambini è molto più difficile che scrivere per i grandi, i quali più o meno si sa come la pensino. I ragazzi sono i lettori più aperti, più disinteressati, insomma i meglio disposti per accogliere il discorso umano di uno scrittore. Dicendo questo io non intendo affatto affermare che siano i più sprovveduti. Al contrario, penso che piacere a un ragazzo sia una cosa difficilissima. Innanzi tutto perché bisogna raccontargli delle storie che stiano in piedi, in secondo luogo perché bisogna adoperare un linguaggio immediato che vada dritto al cuore. Un ragazzo capisce subito quando uno scrittore fa sul serio e quando, invece, cerca di barare. -DB intervista -1971 tempodilibri.it - frizzifrizzi.it - 2018 |
VIAGGIO
AGLI INFERNI DEL SECOLO
Ma
esiste anche l’altra parte della casa, la parte di dentro, le viscere le budella
i segreti dell’uomo. Non c’è Natale né sole di maggio né alba di cristallo,
bensì luce di gesso grigia uniforme nel cortile che si inabissa alle due e mezza
due e tre quarti del pomeriggio, sì, potrebbero essere le flosce quattordici e
quaranta di una tepida infingarda maledetta domenica. |
.
scrivere per ragazzi è come scrivere per gli altri, solo più difficile
.
altri autori
home