dino buzzati traverso

 

 

L'amore è una maledizione che piomba addosso e resistere è impossibile

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un amore
Una mattina del febbraio 1960, a Milano, l’architetto Antonio Dorigo, di 49 anni

telefonò alla signora Ermelina
Sono Tonino, buongiorno sign …
È lei ?   Quanto tempo che non si fa vedere .   Come sta ?
Non c’è male, grazie .   Sa in questi ultimi tempi un mucchio di lavoro e così …

senta potrei venire questo pomeriggio ?
Questo pomeriggio ?   Mi faccia pensare … a che ora ?
Non so .   Alle tre, tre e mezza
tre e mezza d’accordo
Ah senta, signora …

dicA, dica .

da incipit

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Credo di avere fatto,   non ridere,   una cosa indiscutibile per la forza della verità e del dolore .   Al punto in cui sono giunto,   all’età che ho,    questa, mi rendo conto, è la prova decisiva .     O ci riesco in pieno,    o sono morto per sempre .
da lettera ad alberto mondadori  - 1961 fondazionemondadori.it
cronacadiverona.com/un-amore-ma-buzzati-non-centra

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E che dire del romanzo Un amore che io mi ostino a credere uno dei più bei libri di Buzzati? In un mio vecchio articolo del ‘51 avevo affermato che a Buzzati mancava il compiacimento del peccato, il gusto di pescare nel torbido. Dopo parecchi anni Buzzati mi ha inflitto una dura smentita della quale dovrei dolermi, senza peraltro riuscirvi. Qui il torbido c'è ma non credo che Buzzati lo abbia cercato assaporando ogni parola, ogni situazione. Il tema del libro è ancora la morte, non la morte fisica bensì la morte morale, la depravazione. L'abisso chiede, reclama, un abisso sempre peggiore e non c'è alcun possibile giudice che possa decretare una sentenza. Si è tanto parlato di un Buzzati favolista, allegorista e non senza buone ragioni. Ma qui il poeta è anche un clinico e un vivisezionatore del cuore umano. La storiella che l’arte giustifica tutto è un’invenzione dei giuristi preoccupati di non mandare in galera molti ottimi o pessimi scrittori. Non l’ha certo inventata Buzzati e nemmeno ne aveva bisogno perché anche una sola lacrima di pietà avrebbe reso indecente un libro che è soltanto vero, terribilmente vero.
da il secondo mestiere - eugenio montale

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Solo alcuni sanno cosa sia l’amore.     Se no, ce ne accorgeremmo. Quando arrivano queste cose, uno non può controllarsi, e l’amore si rivela, si manifesta. Non dico che non ce ne siano, di amori, ma sono pochi. Se uno ama una donna, è logico che voglia vincere a tutti i costi, magari mentendosi, come fa Antonio Dorigo (il protagonista del libro).     E poi il mio libro finisce in bellezza. Non è calcolato, non è costruito come Il grande ritratto.     L’ho scritto, se posso dirlo, con la stessa spontaneità del Deserto dei Tartari. Esprime il mio stato d’animo, ma un po’ aggravato in tinte. Ma non ho voluto scrivere un libro audace, magari per seguire la corrente.      Lo avrei scritto anche se quel genere che va di moda fosse morto da un pezzo   …    Se è lecito essere un po’ presuntuosi, dirò che c’è tanta autenticità che, sinceramente, in altri libri non conosco.

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D'improvviso si rende conto di quello che forse sapeva già ma finora non ha mai voluto crederci.
Come chi da tempo avverte i sintomi inconfondibili di un male orrendo ma ostinatamente riesce ad interpretarli in modo da poter continuare la vita come prima ma viene il momento che, per la violenza del dolore, egli si arrende e la verità gli appari dinanzi limpida e atroce e allora tutto della vita repentinamente cambia senso e le cose più care si allontanano diventando straniere, vacue e repulsive, e inutilmente l'uomo cerca intorno qualcosa a cui attaccarsi per sperare, egli è completamente disarmato e solo, nulla esiste oltre la malattia che lo divora, è qui se mai l'unico suo scampo, di riuscire a liberarsi, oppure di sopportarla almeno, di tenerla a bada, di resistere fino a che l'infezione col tempo esaurisca il suo furore. Ma dall'istante della rivelazione egli si sente trascinare giù verso un buio mai immaginato se non per gli altri e d'ora in ora va precipitando.
Il 3 aprile verso le cinque. In macchina da piazza della Scala vuol prendere via Verdi ma il semaforo è rosso, stipate intorno le auto, i pedoni che passano, il sole ancora alto, una giornata bellissima, in quel mentre immaginò la Laide sul bordo della pista di Modena dove diceva di andare a posare per fotografie di moda [...] Dio mio possibile che non riuscisse a pensare ad altro? la mente era fissa lì, sempre sullo stesso argomento tormentoso, e all'altezza del palazzo di Brera lo prese lo sgomento perché in questo preciso istante ha capito di essere completamente infelice senza nessuna possibilità di rimedio, una cosa assurda e idiota, tuttavia così vera e intensa che non trovava più requie.
Ora si accorge che, per quanto egli cerchi di ribellarsi, il pensiero di lei lo perseguita in ogni istante millimetrico della giornata, ogni cosa persona situazione lettura ricordo lo riconduce fulmineamente a lei attraverso tortuosi e maligni riferimenti. Una specie di arsura interna in corrispondenza della bocca dello stomaco, su su verso lo sterno, una tensione immobile e dolorosa di tutto l'essere, come quando da un momento all'altro può accadere una cosa spaventosa e si resta inarcati allo spasimo, l'angoscia, l'ansia, l'umiliazione, il disperato bisogno, la debolezza, il desiderio, la malattia mescolati tutti insieme a formare un blocco, un patimento totale e compatto. E capire che la faccenda è ridicola, stolta e rovinosa, che è la classica trappola in cui cadono i cafoni di provincia, che chiunque gli avrebbe dato dell'imbecille e che perciò da nessuno può attendersi consolazione, aiuto, o pietà, consolazione e aiuto possono venire unicamente da lei ma lei di lui se ne frega ... L'inquietudine, la sete, la paura, lo sbigottimento, la gelosia, l'impazienza, la disperazione .    L'amore  !  ...
inizio XIV capitolo  - 1963
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LA CONS
OLAZIONE, LA FELICITÀ ERA TALE CHE IL MODO DI RAGGIUNGERLA NON AVEVA PIÙ ALCUNA IMPORTANZA ...
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Sì certo, complessivamente una storia ridicola, una vicenda come tante, banale, storta, comica, meschina .     Era tanto semplice capirlo, non poteva che finire così, su, coraggio, buonanotte, a domani, non ne vorrà fare una tragedia spero, raddrizzi il nodo della cravatta piuttosto .    Una doverosa risata .     buonanotte  .

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Come se qualcosa lo avesse toccato dentro .    Come se quella ragazza fosse diversa dalle solite .      Come se fra loro due dovessero succedere molte altre cose .     Come se lui ne fosse uscito differente .      Come se Laide incarnasse nel modo più perfetto e intenso il mondo avventuroso e proibito .      Come se ci fosse stata una predestinazione .    Come quando uno, senza alcun particolare sintomo, ha la sensazione di stare per ammalarsi ma non sa di che cosa né il motivo .    Come quando si ode dabbasso il cigolio del cancello e la casa è immensa, ci abitano centinaia di famiglie e all'ingresso è un continuo andirivieni eppure all'improvviso si sa che ad aprire il cancello è stata una persona la quale viene a cercarci   .
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E tu cos’eri per lei ?
Io le ho voluto bene sul serio.
Bene sul serio ? Semplicemente te ne eri ammalato .  ne avevi bisogno .  hai fatto di tutto per averla in modo bestiale ma l’hai fatto.  Ma la consideravi una disgrazia .  è vero o no che la consideravi una disgrazia ? ...
Era, una disgrazia.
E questo lo chiami amore ? ...

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Più di una volta, aveva constatato la incredibile potenza dell'amore, capace di riannodare, con infinita sagacia e pazienza, attraverso vertiginose catene di apparenti casi, due sottilissimi fili che si erano persi nella confusione della vita, da un capo all'altro del mondo.

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Perché lui era stato come pietra legata a una corda e fatta girare più svelto, sempre più svelto, e a farla girare era il vento, era la bufera d’autunno, era la disperazione, l’amore . 

E così follemente girando, non si distingueva più che forma aveva; era diventato una specie di anello fluido e palpitante .  Lui era un cavallo di giostra, e a un tratto la giostra si era messa a girare in modo pazzo, più svelta, sempre più svelta e a farla girare così era lei, era Laide, era autunno, era la disperazione, l’amore  .

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Lei perché immemore di tutto, tesa solo ai suoi oscuri calcoli e capricci, lui perché nulla esisteva al mondo più se non quella ragazzina dal viso diritto e petulante dai lunghi capelli neri, dal cuore cosa ?  ce l’aveva ?
Cos’è ?  -  lui chiese.
È il cha-cha-cha più bello che esiste .   Los cariñosos.  -  lei rispose con la sicurezza di chi nomina il Tristano o il Rigoletto, risaputo nutrimento di tutti .   E in una specie di infantile esaltazione cominciò a ballare da sola  ...    Ballando il cha-cha-cha, gode la meravigliosa sensazione di essere libera, lieve e pura, di non appartenere a nessuno tranne che a lei stessa anzi neppure a lei bensì a qualcosa di più bello, alla musica, alla danza, alla poesia .

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La donna   forse a motivo dell'educazione familiare, gli era parsa sempre una creatura straniera .  con una donna non era mai riuscito ad avere la confidenza che aveva con gli amici   .   La donna era sempre per lui la creatura di un altro mondo, vagamente superiore e indecifrabile  .

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Da dove veniva infatti il tormento, l'inquietudine, l'angoscia, l'incapacità di lavorare, di mangiare, di dormire? Perché Antonio non era più lui bensì un essere schiavo e tremante, incapace di reagire?
Ma era chiarissimo il perché. Perché evidentemente per poter vivere aveva bisogno di Laide ma Laide non gli apparteneva in alcun modo, la Laide andava e veniva, gli telefonava e non gli telefonava, finora per la verità era sempre stata di parola ma se avesse cominciato a non telefonargli? oppure a dirgli che gli avrebbe telefonato e poi invece non telefonava? Era insomma un bene incerto e fluttuante sul quale lui non poteva contare. E proprio da tale incertezza venivano il tormento e lo spasimo .
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Di colpo egli capì che ciò che dicevano, capì il significato del mondo visibile allorché esso ci fa restare superati e diciamo “che bello” e qualcosa di grande entra nell’animo nostro .

Tutta la vita era vissuto senza sospettarne la causa. Solo adesso, finalmente, si rendeva conto del segreto .
Un segreto molto semplice: l’amore. Tutto ciò che ci affascina nel mondo inanimato, i boschi, le pianure, i fiumi, le montagne, i mari, le valli, le steppe, di più, di più, le città, i palazzi, le pietre, di più, il cielo, i tramonti, le tempeste, di più, la neve, di più, la notte, le stelle, il vento, tutte queste cose, di per sé vuote e indifferenti, si caricano di significato umano perché, senza che noi lo sospettiamo, contengono un presentimento d’amore.
Quanto era stato stupido a non essersene mai accorto finora
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Che interesse avrebbe una scogliera, una foresta, un rudere, se non vi fosse implicata una attesa ?   E attesa di che se non di lei, della creatura che ci potrebbe fare felici ?   Dovunque c’era nascosto il pensiero inconfessato di lei, anche se non sapevamo neppure chi fosse.

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La bocca aveva labbra sottili ma rilevate non apertamente sensuali, però maliziose. Il labbro inferiore, relativamente, sporgeva un poco, tanto più che il mento era piccolo, stretto e di profilo rientrante. Non aveva rossetto. La bocca era ferma e tesa, molto piccola in proporzione alla faccia, ma importante. Tutta la faccia era compatta per la tensione estrema della giovinezza. Era una faccia decisa, spiritosa, ingenua, furba, pulita, provocante. Lui si ricordò di una Madonna di Antonello da Messina. Il taglio del volto e la bocca erano identici. La Madonna aveva più dolcezza, certo. Ma lo stesso stampo netto e genuino .

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Le donne, anche le meno scaltre, hanno una sensibilità tremenda per avvertire ciò che avviene nell’uomo in certi casi, il misterioso scatto per cui l’animo si accende e brucia e può darsi l’uomo sul momento non se ne accorga neanche e non sospetti ma lei sì e in quel momento stesso sale invincibilmente sul trono, incominciando il delizioso gioco di farlo impazzire .

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Era una delle tante giornate grigie di Milano però senza la pioggia, con quel cielo incomprensibile che non si capiva se fossero nubi o soltanto nebbia al di là della quale il sole, forse .
   Oppure semplicemente caligine uscita dai camini, dagli sfiatatoi delle caldaie a nafta, dalle ciminiere delle raffinerie Coloradi, dai camion ruggenti, dalle fogne, dai cumuli di detriti immondi rovesciati sulle aree fabbricabili della periferie, dalla trachea dei milioni e milioni – erano tanti? – assembrati fra cemento, asfalto e rabbia intorno a lui .
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C'è, nel motivo popolaresco della musica, semplice come uno stecco eppure carico di secoli, qualcosa che precisamente diceva addio, con potenza d'amore per quello che fu e mai ritornerà e nello stesso tempo un confuso presentimento di cose che un giorno verranno, forse, perché la musica vera è tutta qui nel rimpianto del passato e nella speranza del domani, la quale è altrettanto dolorosa. Poi c'è la disperazione dell'oggi, fatta dell'uno e dell'altra. E fuori di qui altra poesia non esiste .

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Quanto meschina sarebbe, di fronte a un grande spettacolo della natura, la nostra esaltazione spirituale se riguardasse soltanto noi e non potesse espandersi verso un’altra creatura .

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Lui la amava per se stessa, per quello che rappresentava di femmina, di capriccio, di giovinezza, di genuinità popolana, di malizia, di inverecondia, di sfrontatezza, di libertà, di mistero. Era il simbolo di un mondo plebeo, notturno, gaio, vizioso, scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermentava di insaziabile vita intorno alla noia e alla rispettabilità dei borghesi. Era l’ignoto, l’avventura, il fiore dell’antica città spuntato nel cortile di una vecchia casa malfamata fra i ricordi, le leggende, le miserie, i peccati, le ombre e i segreti di Milano. E benché molti non ci avessero camminato sopra, era ancora fresco, gentile e profumato .

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Egli correva in direzione di lei benché sapesse che laggiù lo aspettavano soltanto nuovi affanni, umiliazioni e lacrime. Ma lui correva a perdifiato ugualmente, il piede premuto con tutta la forza sul pedale, per la paura di perdere un minuto .

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Eppure, in quella svergognata e puntigliosa ragazzina una bellezza risplendeva ch'egli non riusciva a definire per cui era diversa da tutte le altre ragazze come lei, pronte a rispondere al telefono. Le altre, al paragone, erano morte. In lei, Laide, viveva meravigliosamente la città, dura, decisa, presuntuosa, sfacciata, orgogliosa, insolente. Nella degradazione degli animi e delle cose, fra suoni e luci equivoci, all'ombra tetra dei condomini, fra le muraglie di cemento e di gesso, nella frenetica desolazione, una specie di fiore ...
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ad ogni modo ricordati, cara laide, una cosa molto importante: contrariamente a quello che ti consiglieranno quasi tutti, contro queste bestiacce cattive che forse incontrerai nella vita, l'arma della furberia conta poco; è più facile che tu riesca a sbaragliarle e a metterle in fuga con la semplice bontà.
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giovanni garofalo - thevision.com/dino-buzzati  -  l’amore sincero deve essere libero dai vincoli della società -DB

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DISTRUTTO
HO LA FEBBRE E TREMO
FERMO AI PIEDI
DELL'OROLOGIO PUBBLICO
SOTTO LA PIOGGIA CHE CADE
SEGNAVA LE SETTE
QUANDO COMINCIAI AD ASPETTARE
ORA LE SFERE SEGNANO OTTANTA
CENTOCINQUANTA
DUEMILA
TRE MILIARDI DI ORE
COME MASSI DI PIOMBO
IO ANCORA QUI CHE ASPETTO
LE ORE ED I GIORNI E GLI ANNI
E TU NON VIENI AMORE

vecchia storia


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immagini fornite dal centro studi buzzati  - GRAZIE
copyright signora almerina buzzati -  agenzia letteraria internazionale -  milano

I GIORNI PERDUTI
Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernst Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta, e caricava la cassa su di un camion.
Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito.
Allora lo inseguì in auto.
E il camion fece una lunga strada, fino all’estrema periferia della città,fermandosi sul ciglio di un vallone.
Kazirra scese dall’auto e andò a vedere . Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e, fatti pochi passi, la scaraventò nel botro -fossato- che era ingombro di migliaia e migliaia di altre casse uguali.
Si avvicinò all’uomo e gli chiese: «Ti ho visto portar fuori quella cassa dal mio parco. Cosa c’era dentro? E cosa sono tutte queste casse?».
Quello lo guardò e sorrise: «Ne ho ancora sul camion da buttare. Non sai? Sono i giorni».
«Che giorni?»
«I giorni tuoi.»
«I miei giorni?»
«I tuoi giorni perduti. I giorni che hai perso. Li aspettavi, vero? Sono venuti. Che ne hai fatto? Guardali, intatti, ancora gonfi. E adesso...»
Kazirra guardò.

Formavano un mucchio immenso.
Scese giù per la scarpata ene aprì uno.
C’era dentro una strada d’autunno, e in fondo Graziella la sua fidanzata chese n’andava per sempre.
E lui neppure la chiamava.
Ne aprì un secondo.
C’era una camera d’ospedale, e sul letto suo fratello Giosuè che stava male e lo aspettava.
Ma lui era in giro per affari.
Ne aprì un terzo.
Al cancelletto della vecchia misera casa stava Duk il fedele mastino che lo attendeva da due anni, ridotto pelle e ossa.
E lui non si sognava di tornare.
Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco. Lo scaricatore stava diritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere.«Signore!» gridò Kazirra.
«Mi ascolti. Lasci che mi porti via almeno questi tre giorni. La supplico. Almeno questi tre. Io sono ricco. Le darò tutto quello che vuole.»
Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per indicare un punto irraggiungibile, come per dire che era troppo tardi e che nessun rimedio erapiù possibile.
Poi svanì nell’aria, e all’istante scomparve anche il gigantesco cumulo delle casse misteriose.
E l’ombra della notte scendeva.

180 racconti - 1982 - https://youtu.be/7c5PfAD6aHw

LA GIACCA STREGATA
BENCHÉ IO APPREZZI L’ELEGANZA NEL VESTIRE, NON BADO, DI SOLITO, ALLA PERFEZIONE O MENO CON CUI SONO TAGLIATI GLI ABITI DEI MIEI SIMILI. UNA SERA TUTTAVIA, DURANTE UN RICEVIMENTO IN UNA CASA DI MILANO CONOBBI UN UOMO, DALL’APPARENTE ETÀ DI QUARANT’ANNI, IL QUALE LETTERALMENTE RISPLENDEVA PER LA BELLEZZA, DEFINITIVA E PURA, DEL VESTITO. NON SO CHI FOSSE, LO INCONTRAVO PER LA PRIMA VOLTA, E ALLA PRESENTAZIONE, COME SUCCEDE SEMPRE, CAPIRE IL SUO NOME FU IMPOSSIBILE. MA A UN CERTO PUNTO DELLA SERA MI TROVAI VICINO A LUI, E SI COMINCIÒ A DISCORRERE. SEMBRAVA UN UOMO GARBATO E CIVILE, TUTTAVIA CON UN ALONE DI TRISTEZZA. FORSE CON ESAGERATA CONFIDENZA – DIO ME NE AVESSE DISTOLTO – GLI FECI I COMPLIMENTI PER LA SUA ELEGANZA; E OSAI PERFINO CHIEDERGLI CHI FOSSE IL SUO SARTO. L’UOMO EBBE UN SORRISETTO CURIOSO, QUASI CHE SI FOSSE ASPETTATO LA DOMANDA.
«QUASI NESSUNO LO CONOSCE» DISSE «PERÒ È UN GRAN MAESTRO. E LAVORA SOLO QUANDO GLI GIRA. PER POCHI INIZIATI.»
«DIMODOCHÉ IO … ?»
«OH, PROVI, PROVI. SI CHIAMA CORTICELLA, ALFONSO CORTICELLA, VIA FERRARA 17.»
«SARÀ CARO, IMMAGINO.»
«LO PRESUMO, MA GIURO CHE NON LO SO. QUEST’ABITO ME L’HA FATTO DA TRE ANNI E IL CONTO NON ME L’HA ANCORA MANDATO.»
«CORTICELLA? VIA FERRARA 17, HA DETTO?»
«ESATTAMENTE»
RISPOSE LO SCONOSCIUTO. E MI LASCIÒ PER UNIRSI AD UN ALTRO GRUPPO. IN VIA FERRARA 17 TROVAI UNA CASA COME TANTE ALTRE E COME QUELLA DI TANTI ALTRI SARTI ERA L’ABITAZIONE DI ALFONSO CORTICELLA. FU LUI CHE VENNE AD APRIRMI. ERA UN VECCHIETTO, COI CAPELLI NERI, PERÒ SICURAMENTE TINTI.
CON MIA SORPRESA, NON FECE IL DIFFICILE. ANZI, PAREVA ANSIOSO CHE DIVENTASSI SUO CLIENTE. GLI SPIEGAI COME AVEVO AVUTO L’INDIRIZZO, LODAI IL SUO TAGLIO, GLI CHIESI DI FARMI UN VESTITO. SCEGLIEMMO UN PETTINATO GRIGIO QUINDI EGLI PRESE LE MISURE, E SI OFFERSE DI VENIRE, PER LA PROVA, A CASA MIA. GLI CHIESI IL PREZZO. NON C’ERA FRETTA, LUI RISPOSE, CI SAREMMO SEMPRE MESSI D’ACCORDO. CHE UOMO SIMPATICO, PENSAI SULLE PRIME. EPPURE PIÚ TARDI, MENTRE RINCASAVO, MI ACCORSI CHE IL VECCHIETTO AVEVA LASCIATO UN MALESSERE DENTRO DI ME (FORSE PER I TROPPI INSISTENTI E MELLIFLUI SORRISI). INSOMMA NON AVEVO NESSUN DESIDERIO DI RIVEDERLO. MA ORMAI IL VESTITO ERA ORDINATO. E DOPO UNA VENTINA DI GIORNI ERA PRONTO QUANDO ME LO PORTARONO, LO PROVAI, PER QUALCHE SECONDO, DINANZI ALLO SPECCHIO. ERA UN CAPOLAVORO. MA, NON SO BENE PERCHÉ, FORSE PER IL RICORDO DELLO SGRADEVOLE VECCHIETTO, NON AVEVO NESSUNA VOGLIA DI INDOSSARLO. E PASSARONO SETTIMANE PRIMA CHE MI DECIDESSI. QUEL GIORNO ME LO RICORDERÒ PER SEMPRE. ERA UN MARTEDÌ DI APRILE E PIOVEVA. QUANDO EBBI INFILATO L’ABITO – GIACCA, CALZONI E PANCIOTTO – CONSTATAI PIACEVOLMENTE CHE NON MI TIRAVA O STRINGEVA DA NESSUNA PARTE, COME ACCADE QUASI SEMPRE CON I VESTITI NUOVI. EPPURE MI FASCIAVA ALLA PERFEZIONE. DI REGOLA NELLA TASCA DESTRA DELLA GIACCA IO NON METTO NIENTE, LE CARTE LE TENGO NELLA TASCA SINISTRA. QUESTO SPIEGA PERCHÉ SOLO DOPO UN PAIO D’ORE, IN UFFICIO, INFILANDO CASUALMENTE LA MANO NELLA TASCA DESTRA, MI ACCORSI CHE C’ERA DENTRO UNA CARTA. FORSE IL CONTO DEL SARTO ?
NO. ERA UN BIGLIETTO DA DIECIMILA LIRE.
RESTAI INTERDETTO. IO, CERTO, NON CE L’AVEVO MESSO. D’ALTRA PARTE ERA ASSURDO PENSARE A UN REGALO DELLA MIA DONNA DI SERVIZIO, LA SOLA PERSONA CHE, DOPO IL SARTO, AVEVA AVUTO OCCASIONE-DI AVVICINARSI AL VESTITO. O CHE FOSSE UN BIGLIETTO FALSO? LO GUARDAI CONTROLUCE, LO CONFRONTAI CON ALTRI. PIÙ BUONO DI COSÌ NON POTEVA ESSERE.
UNICA SPIEGAZIONE POSSIBILE, UNA DISTRAZIONE DEL CORTICELLA. MAGARI ERA VENUTO UN CLIENTE A VERSARGLI UN ACCONTO, IL SARTO IN QUEL MOMENTO NON AVEVA CON SÉ IL PORTAFOGLI E, TANTO PER NON LASCIARE IL BIGLIETTO IN GIRO, L’AVEVA INFILATO NELLA MIA GIACCA, APPESA AD UN MANICHINO. CASI SIMILI POSSONO CAPITARE.
SCHIACCIAI IL CAMPANELLO PER CHIAMARE LA SEGRETARIA. AVREI SCRITTO UNA LETTERA AL CORTICELLA RESTITUENDOGLI I SOLDI NON MIEI. SENNONCHÉ, E NON NE SAPREI DIRE IL MOTIVO, INFILAI DI NUOVO LA MANO NELLA TASCA.
«CHE COS’HA DOTTORE? SI SENTE MALE?» MI CHIESE LA SEGRETARIA ENTRATA IN QUEL MOMENTO. DOVEVO ESSERE DIVENTATO PALLIDO COME LA MORTE. NELLA TASCA, LE DITA AVEVANO INCONTRATO I LEMBI DI UN ALTRO CARTIGLIO; IL QUALE POCHI ISTANTI PRIMA NON C’ERA.
«NO, NO, NIENTE» DISSI. «UN LIEVE CAPOGIRO. DA QUALCHE TEMPO MI CAPITA. FORSE SONO UN PO’ STANCO. VADA PURE, SIGNORINA, C’ERA DA DETTARE UNA LETTERA, MA LO FAREMO PIÙ TARDI.» SOLO DOPO CHE LA SEGRETARIA FU ANDATA, OSAI ESTRARRE IL FOGLIO DALLA TASCA. ERA UN ALTRO BIGLIETTO DA DIECIMILA LIRE. ALLORA PROVAI UNA TERZA VOLTA. E UNA TERZA BANCONOTA USCI. IL CUORE MI PRESE A GALOPPARE. EBBI LA SENSAZIONE DI TROVARMI COINVOLTO, PER RAGIONI MISTERIOSE, NEL GIRO DI UNA FAVOLA COME QUELLE CHE SI RACCONTANO AI BAMBINI E CHE NESSUNO CREDE VERE.
COL PRETESTO DI NON SENTIRMI BENE, LASCIAI L’UFFICIO E RINCASAI. AVEVO BISOGNO DI RESTARE SOLO. PER FORTUNA, LA DONNA CHE FACEVA I SERVIZI SE N’ERA GIÀ ANDATA. CHIUSI LE PORTE, ABBASSAI LE PERSIANE. COMINCIAI A ESTRARRE LE BANCONOTE UNA DOPO L’ALTRA CON LA MASSIMA CELERITÀ, DALLA TASCA CHE PAREVA INESAURIBILE.
LAVORAI IN UNA SPASMODICA TENSIONE DI NERVI, CON LA PAURA CHE IL MIRACOLO CESSASSE DA UN MOMENTO ALL’ALTRO. AVREI VOLUTO CONTINUARE PER TUTTA LA SERA E LA NOTTE, FINO AD ACCUMULARE MILIARDI. MA A UN CERTO PUNTO LE FORZE MI VENNERO MENO. DINANZI A ME STAVA UN MUCCHIO IMPRESSIONANTE DI BANCONOTE. L’IMPORTANTE ADESSO ERA DI NASCONDERLE, CHE NESSUNO NE AVESSE SENTORE. VUOTAI UN VECCHIO BAULE PIENO DI TAPPETI E SUL FONDO, ORDINATI IN TANTI MUCCHIETTI, DEPOSI I SOLDI, CHE VIA VIA ANDAVO CONTANDO. ERANO CINQUANTOTTO MILIONI ABBONDANTI.
MI RISVEGLIÒ AL MATTINO DOPO LA DONNA, STUPITA DI TROVARMI SUL LETTO ANCORA TUTTO VESTITO. CERCAI DI RIDERE, SPIEGANDO CHE LA SERA PRIMA AVEVO BEVUTO UN PO’ TROPPO E CHE IL SONNO MI AVEVA COLTO ALL’IMPROVVISO. UNA NUOVA ANSIA: LA DONNA MI INVITAVA A TOGLIERMI IL VESTITO PER DARGLI ALMENO UNA SPAZZOLATA. RISPOSI CHE DOVEVO USCIRE SUBITO E CHE NON AVEVO TEMPO DI CAMBIARMI. POI MI AFFRETTAI IN UN MAGAZZINO DI ABITI FATTI PER COMPRARE UN ALTRO VESTITO, DI STOFFA SIMILE; AVREI LASCIATO QUESTO ALLE CURE DELLA CAMERIERA; IL “MIO”, QUELLO CHE AVREBBE FATTO DI ME, NEL GIRO DI POCHI GIORNI, UNO DEGLI UOMINI PIÙ POTENTI DEL MONDO, L’AVREI NASCOSTO IN UN POSTO SICURO. NON CAPIVO SE VIVEVO IN UN SOGNO, SE ERO FELICE O SE INVECE STAVO SOFFOCANDO SOTTO IL PESO DI UNA FATALITÀ TROPPO GRANDE. PER LA STRADA, ATTRAVERSO L’IMPERMEABILE, PALPAVO CONTINUAMENTE IN CORRISPONDENZA DELLA MAGICA TASCA. OGNI VOLTA RESPIRAVO DI SOLLIEVO. SOTTO LA STOFFA RISPONDEVA IL CONFORTANTE SCRICCHIOLIO DELLA CARTA MONETA. MA UNA SINGOLARE COINCIDENZA RAFFREDDÒ IL MIO GIOIOSO DELIRIO. SUI GIORNALI DEL MATTINO CAMPEGGIAVA LA NOTIZIA DI UNA RAPINA AVVENUTA IL GIORNO PRIMA. IL CAMIONCINO BLINDATO DI UNA BANCA CHE, DOPO AVER FATTO IL GIRO DELLE SUCCURSALI, STAVA PORTANDO ALLA SEDE CENTRALE I VERSAMENTI DELLA GIORNATA, ERA STATO ASSALITO E SVALIGIATO IN VIALE PALMANOVA DA QUATTRO BANDITI. ALL’ACCORRERE DELLA GENTE, UNO DEI GANGSTER, PER FARSI LARGO, SI ERA MESSO A SPARARE. E UN PASSANTE ERA RIMASTO UCCISO. MA SOPRATTUTTO MI COLPÌ L’AMMONTARE DEI BOTTINO: ESATTAMENTE CINQUANTOTTO MILIONI (COME I MIEI).POTEVA ESISTERE UN RAPPORTO FRA LA MIA IMPROVVISA RICCHEZZA E IL COLPO BRIGANTESCO AVVENUTO QUASI CONTEMPORANEAMENTE? SEMBRAVA INSENSATO PENSARLO. E IO NON SONO SUPERSTIZIOSO. TUTTAVIA IL FATTO MI LASCIÒ MOLTO PERPLESSO.
PIÙ SI OTTIENE E PIÙ SI DESIDERA. ERO GIÀ RICCO, TENUTO CONTO DELLE MIE MODESTE ABITUDINI. MA URGEVA IL MIRAGGIO DI UNA VITA DI LUSSI SFRENATI. E LA SERA STESSA MI RIMISI AL LAVORO. ORA PROCEDEVO CON PIÙ CALMA E CON MINORE STRAZIO DEI NERVI. ALTRI CENTOTRENTACINQUE MILIONI SI AGGIUNSERO AL TESORO PRECEDENTE. QUELLA NOTTE NON RIUSCII A CHIUDERE OCCHIO. ERA IL PRESENTIMENTO DI UN PERICOLO? O LA TORMENTATA COSCIENZA DI CHI OTTIENE SENZA MERITI UNA FAVOLOSA FORTUNA? O UNA SPECIE DI CONFUSO RIMORSO? ALLE PRIME LUCI BALZAI DAL LETTO, MI VESTII E CORSI FUORI IN CERCA DI UN GIORNALE. COME LESSI, MI MANCÒ IL RESPIRO. UN INCENDIO TERRIBILE, SCATURITO DA UN DEPOSITO DI NAFTA, AVEVA SEMIDISTRUTTO UNO STABILE NELLA CENTRALISSIMA VIA SAN CLORO. FRA L’ALTRO ERANO STATE DIVORATE DALLE FIAMME LE CASSEFORTI DI UN GRANDE ISTITUTO IMMOBILIARE, CHE CONTENEVANO OLTRE CENTOTRENTA MILIONI IN CONTANTI. NEL ROGO, DUE VIGILI DEL FUOCO AVEVANO TROVATO LA MORTE.
DEVO ORA FORSE ELENCARE UNO PER UNO I MIEI DELITTI? SÌ, PERCHÉ ORMAI SAPEVO CHE I SOLDI CHE LA GIACCA MI PROCURAVA, VENIVANO DAL CRIMINE, DAL SANGUE, DALLA DISPERAZIONE, DALLA MORTE, VENIVANO DALL’INFERNO. MA C’ERA PURE DENTRO DI ME L’INSIDIA DELLA RAGIONE LA QUALE, IRRIDENDO, RIFIUTAVA DI AMMETTERE UNA MIA QUALSIASI RESPONSABILITÀ. E ALLORA LA TENTAZIONE RIPRENDEVA, E ALLORA LA MANO – ERA COSÌ FACILE! – SI INFILAVA NELLA TASCA E LE DITA, CON RAPIDISSIMA VOLUTTÀ, STRINGEVANO I LEMBI DEL SEMPRE NUOVO BIGLIETTO. I SOLDI, I DIVINI SOLDI! SENZA LASCIARE IL VECCHIO APPARTAMENTO (PER NON DARE NELL’OCCHIO), MI ERO IN POCO TEMPO COMPRATO UNA GRANDE VILLA, POSSEDEVO UNA PREZIOSA COLLEZIONE DI QUADRI, GIRAVO IN AUTOMOBILI DI LUSSO, E, LASCIATA LA MIA DITTA PER “MOTIVI DI SALUTE”, VIAGGIAVO SU E GIÙ PER IL MONDO IN COMPAGNIA DI DONNE MERAVIGLIOSE.
SAPEVO CHE, OGNIQUALVOLTA RISCUOTEVO DENARI DALLA GIACCA, AVVENIVA NEL MONDO QUALCOSA DI TURPE E DOLOROSO. MA ERA PUR SEMPRE UNA CONSAPEVOLEZZA VAGA, NON SOSTENUTA DA LOGICHE PROVE. INTANTO, A OGNI MIA NUOVA RISCOSSIONE, LA COSCIENZA MIA SI DEGRADAVA, DIVENTANDO SEMPRE PIÙ VILE. E IL SARTO? GLI TELEFONAI PER CHIEDERE IL CONTO, MA NESSUNO RISPONDEVA. IN VIA FERRARA, DOVE ANDAI A CERCARLO, MI DISSERO CHE ERA EMIGRATO ALL’ESTERO, NON SAPEVANO DOVE. TUTTO DUNQUE CONGIURAVA A DIMOSTRARMI CHE, SENZA SAPERLO, IO AVEVO STRETTO UN PATTO COL DEMONIO. FINCHÉ NELLO STABILE DOVE DA MOLTI ANNI ABITAVO, UNA MATTINA TROVARONO UNA PENSIONATA SESSANTENNE ASFISSIATA COL GAS; SI ERA UCCISA PER AVER SMARRITO LE TRENTAMILA LIRE MENSILI RISCOSSE IL GIORNO PRIMA (E FINITE IN MANO MIA). BASTA, BASTA! PER NON SPROFONDARE FINO AL FONDO DELL’ABISSO, DOVEVO SBARAZZARMI DELLA GIACCA. NON GIÀ CEDENDOLA AD ALTRI, PERCHÉ L’OBBROBRIO SAREBBE CONTINUATO (CHI MAI AVREBBE POTUTO RESISTERE A TANTA LUSINGA?). ERA INDISPENSABILE DISTRUGGERLA.
IN MACCHINA RAGGIUNSI UNA RECONDITA VALLE DELLE ALPI. LASCIAI L’AUTO SU UNO SPIAZZO ERBOSO E MI INCAMMINAI SU PER UN BOSCO. NON C’ERA ANIMA VIVA. OLTREPASSATO IL BOSCO, RAGGIUNSI LE PIETRAIE DELLA MORENA. QUI, FRA DUE GIGANTESCHI MACIGNI, DAL SACCO DA MONTAGNA TRASSI LA GIACCA INFAME, LA COSPARSI DI PETROLIO E DIEDI FUOCO. IN POCHI MINUTI NON RIMASE CHE LA CENERE.
MA ALL’ULTIMO GUIZZO DELLE FIAMME, DIETRO DI ME – PAREVA A DUE O TRE METRI DI DISTANZA – RISUONÒ UNA VOCE UMANA: « TROPPO TARDI, TROPPO TARDI! ». TERRORIZZATO, MI VOLSI CON UN GUIZZO DA SERPENTE. MA NON SI VEDEVA NESSUNO. ESPLORAI INTORNO, SALTANDO DA UN PIETRONE ALL’ALTRO, PER SCOVARE IL MALEDETTO. NIENTE. NON C’ERANO CHE PIETRE. NONOSTANTE LO SPAVENTO PROVATO, RIDISCESI AL FONDO VALLE CON UN SENSO DI SOLLIEVO. LIBERO, FINALMENTE. E RICCO, PER FORTUNA.
MA SULLO SPIAZZO ERBOSO, LA MIA MACCHINA NON C’ERA PIÙ. E, RITORNATO CHE FUI IN CITTÀ, LA MIA SONTUOSA VILLA ERA SPARITA; AL SUO POSTO, UN PRATO INCOLTO CON DEI PALI CHE REGGEVANO L’AVVISO «TERRENO COMUNALE DA VENDERE». E I DEPOSITI IN BANCA, NON MI SPIEGAI COME, COMPLETAMENTE ESAURITI. E SCOMPARSI, NELLE MIE NUMEROSE CASSETTE DI SICUREZZA, I GROSSI PACCHI DI AZIONI. E POLVERE, NIENT’ALTRO CHE POLVERE, NEL VECCHIO BAULE. ADESSO HO RIPRESO STENTATAMENTE A LAVORARE, ME LA CAVO A MALA PENA, E, QUELLO CHE È PIÙ STRANO, NESSUNO SEMBRA MERAVIGLIARSI DELLA MIA IMPROVVISA ROVINA. E SO CHE NON È ANCORA FINITA. SO CHE UN GIORNO SUONERÀ IL CAMPANELLO DELLA PORTA, IO ANDRÒ AD APRIRE E MI TROVERÒ DI FRONTE, COL SUO ABBIETTO SORRISO, A CHIEDERE L’ULTIMA RESA DEI CONTI, IL SARTO DELLA MALORA.
da il colombre

Lo scarafaggio
Rincasato tardi, schiacciai uno scarafaggio che in corridoio mi fuggiva tra i piedi (resto' la' nero sulla piastrella) poi entrai nella camera. Lei dormiva. Accanto mi coricai, spensi la luce, dalla finestra aerta vedevo un pezzo di muro e di cielo.
Era caldo, non riuscivo a dormire, vecchie storie rinascevano dentro di me, dubbi anche, generica sfiducia nel domani. Lei diede un piccolo lamento. "Che cos'hai?" chiesi. Lei apri' un occhio grande che non mi vedeva, mormoro': "Ho paura". "Paura di che cosa?" chiesi. "Ho paura di morire." "Paura di morire? E perche'?"
Disse:"Ho sognato  ..." Si strinse un poco vicino. "Ma che cosa hai sognato ?" "Ho sognato ch'ero in campagna, ero seduta sul bordo di un fiume e ho sentito delle grida lontane  ... e io dovevo morire." "Sulla riva di un fiume?" "Si" disse "sentivo le rane ... cra cra facevano."   "E che ora era?" "Era sera, e ho sentito gridare." "Be', dormi, adesso sono quasi le due." "Le due?" ma non riusciva a capire, il sonno l'aveva gia' ripresa. Spensi la luce e udii che qualcuno rimestava giu' in cortile.
Poi sali' la voce di un cane, acuta e lunga; sembrava che si lamentasse. Sali' in alto, passando dinanzi alla finestra, si perse nella notte calda. Poi si apri' una persiana (o si chiuse?). Lontano, lontanissimo, ma forse mi sbagliavo, un bambino si mise a piangere.
Poi ancora l'ululato del cane, lungo piu' di prima. Io non riuscivo a dormire. Delle voci d'uomo vennero da qualche altra finestra. Erano sommesse, come borbottate in dormiveglia. Cip, cip, zitevitt, udii da un balcone sotto, e qualche sbattimento d'ali. "Florio!" si udi' chiamare all'improvviso, doveva essere due o tre case piu' in la'. "Florio  !" pareva una donna, donna angosciata, che avesse smarrito il figlio.
Ma perche' il canarino di sotto si era svegliato? Che cosa c'era?Con un cigolio lamentoso, quasi la spingesse adagio adagio uno che non voleva farsi sentire, una porta si apri' in qualche parte della casa. Quanta gente sveglia a quest'ora. "Ho paura ho paura" si lamento' lei cercandomi con un braccio. "Oh Maria" le chiesi " che cos' hai?" Rispose con una voce sottile: "Ho paura di morire". "Hai sognato ancora  ?" lei fece un piccolo si' con la testa. "Ancora quelle grida  ?" Fece segno di si'. "E tu dovevi morire?" Si' si', faceva, cercando di guardarmi, le palpebre appiccicate dal sonno.
C'e' qualcosa, pensai: lei sogna, il cane urla, il canarino si e' svegliato, gente e' alzata e parla, lei sogna la morte, come se tutti avessero sentito una cosa, una presenza. Oh, il sonno che non mi veniva, e le stelle passavano. Udii distintamente in cortile il rumore di un fiammifero acceso. Perche' uno si metteva a fumare alle tre di notte? Allora per sete mi alzai e uscii di camera a prendere acqua. Accesa la triste lampadina del corridoio, intravidi la macchia nera sulla piastrella e mi fermai, impaurito.
Guardai: la macchia nera si muoveva. O meglio se ne muoveva un pezzetto (lei sogna di morire, ulula il cane, il canarino si sveglia, gente si e' alzata, una mamma chiama il figlio, le porte cigolano, uno si mette a fumare e, forse, il pianto di un bambino). Vidi sul pavimento la bestiola nera spiaccicata muovere una zampina. Era quella destra di mezzo. Tutto il resto era immobile, una macchia di inchiostro lasciata cadere dalla morte.
Ma la gambina remava flebilmente come per risalire qualche cosa, il fiume delle tenebre forse. Sperava ancora? Per due ore e mezzo della notte -mi venne un brivido- l'immondo insetto appiccicato alla piastrella dalle sue stesse mucillagini viscerali, per due ore e mezzo aveva continuato a morire, e non era finita ancora.
Meravigliosamente continuava a morire, trasmettendo con l'ultima zampina un suo messaggio. Ma chi lo poteva raccogliere alle tre di notte nel buio del corridoio di una pensione sconosciuta? Due ore e mezzo, pensai, continuamente su e giu', l'ultima porzione di vita spinta dentro la superstite gambina per invocare giustizia.
Il pianto di un bambino -avevo letto un giorno- basta ad avvelenare il mondo. In cuor suo Dio onnipotente vorrebbe che certe cose non succedessero, ma impedirlo non puo' perche' e' stato da lui stesso deciso. Pero' un ombra giace allora su di noi.
Schiacciai con la pantofola l'insetto e fregando sul pavimento lo spappolai in una lunga striscia grigia. Allora finalmente il cane tacque, lei nel sonno si quieto' e quasi sembrava sorridesse, le voci si spensero , tacque la madre, nessun sintomo piu' di irrequietezza del canarino, la notte ricominciava a passare sulla casa stanca, in altri punti del mondo la morte si era spostata a gonfiare la sua inquietudine.
la boutique del mistero 1968 - bo.astro.it
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SETTE PIANI
Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c’era la famosa casa di cura. Aveva un po’ di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi la strada fra la stazione e l’ospedale, portandosi la sua valigetta.
Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell’unica malattia. Ciò garantiva un’eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d’impianti.
Quando lo scorse da lontano – e lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria Giuseppe Corte ebbe un’ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d’albergo. Tutt’attorno era una cinta di alti alberi.
Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini vestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante.
Giuseppe Corte si mise subito a letto e, accesa la lampadina sopra il capezzale, cominciò a leggere un libro che aveva portato con sé. Poco dopo entrò un’infermiera per chiedergli se desiderasse qualcosa.
Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise volentieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di cura. Seppe così la strana caratteristica di quell’ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l’ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare.
Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un’atmosfera omogenea. D’altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto.
Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all’istituto un unico fondamentale indirizzo. Quando l’infermiera fu uscita, Giuseppe Corte, sembrandogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la finestra e guardò fuori, non per osservare il panorama della città, che pure era nuova per lui, ma nella speranza di scorgere, attraverso le finestre, altri ammalati dei piani inferiori. La struttura dell’edificio, a grandi rientranze, permetteva tale genere di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la sua attenzione sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e che si scorgevano solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. Nella maggioranza erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli.
Il Corte si accorse che a una finestra di fianco alla sua stava affacciato un uomo. I due si guardarono a lungo con crescente simpatia, ma non sapevano come rompere il silenzio. Finalmente Giuseppe Corte si fece coraggio e disse: «Anche lei sta qui da poco?»
«Oh no» fece l’altro «sono qui già da due mesi…» tacque qualche istante e poi, non sapendo come continuare la conversazione, aggiunse: «Guardavo giù mio fratello.»
«Suo fratello?»
«Sì» spiegò lo sconosciuto. «Siamo entrati insieme, un caso veramente strano, ma lui è andato peggiorando, pensi che adesso è già al quarto.»
«Al quarto che cosa?»
«Al quarto piano» spiegò l’individuo e pronunciò le due parole con una tale espressione di commiserazione e di orrore, che Giuseppe Corte restò quasi spaventato.
«Ma son così gravi al quarto piano?» domandò cautamente.
«Oh Dio» fece l’altro scuotendo lentamente la testa «non sono ancora così disperati, ma c’è comunque poco da stare allegri.»
«Ma allora» chiese ancora il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano «allora, se al quarto sono già così gravi, al primo chi mettono allora?»
«Oh, al primo sono proprio i moribondi. Laggiù i medici non hanno più niente da fare. C’è solo il prete che lavora. E naturalmente…»
«Ma ce n’è pochi al primo piano» interruppe Giuseppe Corte, come se gli premesse di avere una conferma «quasi tutte le stanze sono chiuse laggiù.»
«Ce n’è pochi, adesso, ma stamattina ce n’erano parecchi» rispose lo sconosciuto con un sottile sorriso. «Dove le persiane sono abbassate là qualcuno è morto da poco. Non vede, del resto, che negli altri piani tutte le imposte sono aperte? Ma mi scusi» aggiunse ritraendosi lentamente «mi pare che cominci a far freddo. Io ritorno in letto. Auguri, auguri…»
...
Giunse così, per quell’esecrabile errore, all’ultima stazione. Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per la gravità del male, a giudizio anche dei medici più severi, aveva il diritto di essere assegnato al sesto, se non al settimo piano! La situazione era talmente grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignazzare senza ritegno.
Disteso nel letto, mentre il caldo pomeriggio d’estate passava lentamente sulla grande città, egli guardava il verde degli alberi attraverso la finestra, con l’impressione di essere giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero veri; finì anzi per convincersene, notando che le foglie non si muovevano affatto. Questa idea lo agitò talmente, che il Corte chiamò col campanello l’infermiera e si fece porgere gli occhiali da miope, che in letto non adoperava; solo allora riuscì a tranquillizzarsi un poco: con l’aiuto delle lenti poté assicurarsi che erano proprio alberi veri e che le foglie, sia pur leggermente, ogni tanto erano mosse dal vento.
Uscita che fu l’infermiera, passò un quarto d’ora in completo silenzio. Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo di quel precipizio?
Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l’orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall’altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.

la boutique del mistero 1968 - settepiani.com
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il mantello
Dopo un'interminabile attesa,   quando la speranza già cominciava a morire,    Giovanni ritornò alla sua casa .   Non erano ancora suonate le due, sua mamma stava sparecchiando, era una giornata grigia di marzo e volavano cornacchie   .
la boutique del mistero
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***

 


in via solferino
presso la sede del corriere

 

 





1956
dedica di eugenio montale a DB
quando gli dono'
La farfalla di Dinard

buzzati.it

BUZZATI

SCRITTORE E PITTORE

I MIRACOLI DI VAL MOREL
La prima edizione uscì nel novembre 1971, la seconda nel 1983, poi sparì definitivamente. Dopo trent’anni «I miracoli di Val Morel» di Dino Buzzati torna in libreria per i tipi Mondadori: 39 ex voto disegnati dall’autore per illustrare altrettanti miracoli immaginari attribuiti a Santa Rita da Cascia, ciascuno affiancato da un breve racconto.
corriere.it - 2012


IN QUESTA CASA VISSE DINO BUZZATI

via Vittorio Veneto 24
zona Porta Nuova - milano


http://video.repubblica.it/casa-buzzati-tra-libri-cani-foche-e-altri-animali

https://it.wikipedia.org/wiki/Dino_Buzzati

AUTORITRATTO
Sono brutto. Secco, naso pesante, voce ruggine, introverso, nessuna comunicativa, scarso successo con le donne.
Sono quasi visceralmente pessimista. E pensare che non è che questo pessimismo mi sia nato da tristi esperienze. Eppure io ho avuto sempre questa sensazione, come se dovesse succedere qualcosa di triste e di brutto. Soprattutto se io sono in un posto tranquillo e silenzioso, come in campagna, ho come la sensazione che da un momento all’altro debba capitare qualcosa di catastrofico, non so, come un bolide, un meteorite, che piombi sulla Terra e la sfasci.
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Sono sempre stato un tipo zelante e scrupoloso: se in una giornata riesco a realizzare bene un lavoro sto meglio, persino fisicamente, provo una specie di liberazione. Mi definirei un doverista. Da ragazzo soltanto l’idea di poter bigiare la scuola mi metteva addosso il terrore.

www.dinobuzzati.it
.
le pagelle di dino buzzati    
www.ilfoglio.it/non-e-buzzati-che-andava-male-a-scuola 
www.orizzontescuola.it/dino-buzzati-aveva-6-in-italiano
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*

 

 

Aprile 1945
Ecco, la guerra è finita.
Si è fatto silenzio sull’Europa.
E sui mari intorno

ricominciano di notte a navigare i lumi.
Dal letto dove sono disteso

posso finalmente guardare le stelle.
Come siamo felici.
A metà del pranzo
la mamma si è messa improvvisamente

a piangere  per la gioia
nessuno era più capace di andare avanti a parlare.
Che da stasera la gente ricominci a essere buona?
Spari di gioia per le vie
finestre accese a sterminio,
tutti sono diventati pazzi
ridono, si abbracciano
i più duri tipi dicono strane parole dimenticate.
Felicità su tutto il mondo è pace!
Infatti quante cose orribili passate per sempre.
Non udremo più misteriosi schianti nella notte
che gelano il sangue e al rombo ansimante dei motori
le case non saranno mai più cosi immobili e nere.
Non arriveranno più piccoli biglietti colorati
con sentenze fatali
Non più al davanzale per ore, mesi, anni
aspettando lui che ritorni.
Non più le Moire lanciate sul mondo a prendere uno
qua uno là senza preavviso,
e sentirle perennemente nell'aria
notte e dì, capricciose tiranne.
Non più, non più, ecco tutto
Dio come siamo felici

 

 

 

https://youtu.be/Comv7f2DGpw   -  https://youtu.be/s7G_0LAlpd8
rai -
facebook.com/watch

8 dicembre 1962 - intervista - incontro con dino buzzati

Un po’ più in là

della tua solitudine

c’è la persona che ami
sessanta racconti

Ciascuno di noi forse porta scritta
in una recondita particella del corpo
la propria finale condanna  .

Ma perché andare determinatamente a disseppellirla ?
cronache terrestri




LA SAPONETTA

Tu pensavi che cosa mi regalerà
finalmente è venuto Natale
eccomi qui alla porta, e tutto
è Natale scrupolosamente
l'esatto sogno dei bambini
col gelo col grigio col vento
che fa turbinare quei cosi
di ghiaccio e di neve e le famiglie
che si chiudono come valve
tram fermi automobili poche
eccomi qui da te col regalo
io che te lo avevo promesso
ciao ciao ho avuto la forza
di arrivare fin qui se non altro.
Ma dico: quando l'avrai consumato
e resterà un fogliettino
un fagiolo un cece un nulla
e ti scivolerà fra le dita
precipitando giù nel lavandino
dico, amore, per un istante almeno
ti ricorderai di me?

il capitano pic e altre poesie - 1965




Allora lui
improvvisamente capisce.
Un vuoto come non ha provato mai.
Nello stesso tempo la sensazione
di entrare nella vita
veramente
di essere uomo
veramente
per la prima volta
fino allora
pur tra affanni e spasimi
era stato più che altro
un gioco al di fuori
una prova
una esercitazione
nel complesso fortunata.
E adesso invece gioco non è più
il grado
che gli è stato dato alla nascita
se lo sente addosso tutto
Dio come pesa.
Il grado di uomo.

il reggimento parte all’alba - 1985

*

A PROPOSITO DI LAIKA
Illustre signor De Madariaga
abbiamo letto col piacere che può dare l'ingegnoso ed elegante scherzo di un gran signore della cultura europea qual è lei l'elzeviro pubblicato martedì scorso dal 'Corriere della Sera' nel quale s'immagina un dialogo fra la cagnetta Laika chiusa nel satellite in volo e un'oscura cagnetta britannica
… Laika non trova crudele che gli uomini l'abbiano scaraventata in cielo con lo sputnik anzi se ne compiace altamente e si sente presa nella parte di pioniere ...
Ebbene illustre De Madariaga con tutta la considerazione che lei merita ho il sospetto che lei stavolta si sia lasciato un po' prendere la mano dalla letteratura ...
Immaginare come fa lei che il tremendo compito assegnatole inorgoglisse ed esaltasse Laika è sinonimo di assurdo.
Laika felice di esplorare gli spazi per prima
?
Laika ebbra di velocità
?
Laika soddisfatta di "non fare nessuno sforzo per respirare"
?
Laika compiaciuta del perfetto battito cardiaco
? ...
Ma nessuno venne nessuna mano le accarezzò le gola
-  i suoi lamenti non furono percepiti dai perfetti apparecchi degli osservatori sovietici. Dio solamente li udì povera bestiola .  Altro che cupidigia della scienza  !
Del resto
… le è sfuggita proprio alla chiusura dell'articolo una svista sintomatica. Niente di grave intendiamoci. Un infortunio zoologico di minuscola rilevanza.
Là dove la "sua" Laika dice: "Pensa una cane che per anni si è contentato di alzare la zampa posteriore contro un lampione a gas ora può far lo stesso contro una vera stella !"
L'immagine è brillante e patetica … Ma purtroppo è sbagliata. Mai in vita sua la cagnetta Laika alzò una zampa contro lampioni muri o prati.
Occorre forse aggiungere il perché
  ?

.   dino buzzati - corriere dell'Informazione 16-17 novembre 1957

 

indimenticabile Laika
nello Sputnik 2 dal 1957 è lassù nello spazio che gira, e chissà se un giorno lontano un essere umano potrà mettere le mani sul suo corpo mummificato.   Amare parole scrisse su di lei sul Corriere, Dino Buzzati, che i cani li amava moltissimo.     Queste :
Addio dunque, gentile cagnolino che non scodinzoli più, che non avrai più una cuccia, temo, né il prato, né la palla, né il padrone. Tu morrai in crudele solitudine senza saper d’essere un Eroe della Storia, un Simbolo del Progresso, un Pioniere degli Spazi. Ancora una volta l’uomo ha approfittato della tua innocenza, ha abusato di te per sentirsi ancora più grande e darsi un mucchio di arie.

danilo mainardi - corriere 2011

.
Il 3 novembre 1957 partì a bordo dello Sputnik 2 ma sfortunatamente morì dopo pochi giorni. La sua vicenda ha ispirato artisti e scienziati e ha segnato uno spartiacque per i successivi viaggi nel cosmo
Una critica al sacrificio dell'animale venne anche dalla penna dello scrittore Dino Buzzati :

Di cani ne ho conosciuti tanti, miei e non miei, grandi piccoli, vecchi, giovani e non uno manifestò mai qualcosa che possa lontanamente somigliare all'interesse scientifico. Fedeltà, altruismo, disinteresse, bontà, pazienza, tenacia, coraggio, puntualità, disciplina, gratitudine, tutte queste virtù, che noi pratichiamo così di rado, il cane le possiede interamente. Ma amore per la scienza proprio no .
tgcom24.mediaset.it - 2017

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bio

Lo scrittore nasce a Belluno il 16 ottobre 1906. La madre Alba Mantovani è di origine veneziana, mentre il padre Giulio Cesare appartiene ad un'antica famiglia bellunese.   Dino, malgrado la famiglia viva a Milano per l'impegno professionale del padre (docente di diritto internazionale all'Università), nasce nella villa San Pellegrino alle porte della città di Belluno. E' qui che il padre ama tornare per le lunghe vacanze insieme a tutta la famiglia; è qui che Dino trascorre il proprio tempo libero da bambino, affezionandosi a luoghi e persone.
A quattordici anni Buzzati scrive, disegna e coltiva la propria passione per la montagna.

Per le forti pressioni familiari, consegue la laurea in Giurisprudenza.

Ma ancora prima di finire la carriera universitaria, lavora come giornalista presso il quotidiano milanese "Corriere della Sera".   Il suo primo ROMANZo , dal titolo "Bàrnabo delle montagne", esce nel 1933, ma già dall'anno precedente pubblica racconti sul settimanale "Il Popolo della Lombardia".

Nel 1935 esce con il secondo ROMANZo "Il segreto del Bosco Vecchio".

Dal 1936 scrive, per il "Corriere" e altri periodici, diversi racconti poi raccolti in "I sette messaggeri" (1942), "Paura alla Scala" (1949), "Il crollo della Baliverna" (1954), "Sessanta racconti" (1958), "Esperimento di magia" (1958), "Il colombre" (1966), "Le notti difficili" (1971).
Buzzati diventa celebre a livello internazionale con l'uscita DEL ROMANZo "Il deserto dei tartari" (1940), una storia di grande suggestione che dà il titolo al famoso film girato da Valerio Zurlini.
Nel 1942 fa il suo esordio in teatro con la piece "Piccola passeggiata", alla quale seguono altri spettacoli come "Un caso clinico", messo in scena dal regista Giorgio Strehler nel 1953.
Dalla sua vita sentimentale, segnata da amori difficili, prendono spunto i ROMANZI "Il grande ritratto"(1960), "Un amore" (1963) e i numerosi dipinti a sfondo erotico.       E' il periodo in cune delle diverse arti come in "Poema a fumetti", edito da Mondadori nel 1969, nel quale sperimenta il rapporto tra immagine e scrittura e successivamente in "I miracoli di Val Morel",
ciclo pittorico che coniuga arte letteratura e folklore.
Buzzati, ancora nel pieno dell'attività artistica, muore il 28 gennaio 1972.

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Films - Il deserto dei Tartari - Il segreto del bosco vecchio - Il fischio al naso - Barnabo delle montagne - Un amore -
1958 - Premio Strega per la raccolta Sessanta racconti.

dal catalogo della Mostra "Buzzati 1969: il laboratorio di "Poema a fumetti"

http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=308&biografia=Dino+Buzzati

http://it.wikipedia.org/wiki/Dino_Buzzati

 

 

 

 

bio

A soli quattordici anni rimane orfano dell'amato padre che  si spegne a causa di un tumore al pancreas.
L'evento sconvolge così tanto il piccolo Buzzati che per molto tempo vivrà nell'ossessione di essere colpito dallo stesso male. Svolti i regolari studi, nei quali si dimostra bravo e diligente, ma nulla più, si reca nella caserma della sua città per svolgere il servizio militare: sei mesi di scuola allievo ufficiale, tre mesi da sottufficiale (sergente) e quattro mesi da sottotenente. E' invece il 1971 quando comincia ad avvertire i sintomi della malattia (un tumore al pancreas,  esattamente come il padre) che lo porterà alla morte.  
Una serie di incontri con Yves Panafieu durante l'estate e le registrazioni di quei colloqui sono alla base del libro-intervista "Dino Buzzati: un autoritratto", che sarà pubblicato nel 1973 da Mondadori.

L'8 dicembre 1966 sposò Almerina Antoniazzi, la donna che gli aveva ispirato il tormentato "Un amore". Nel 1971 quando cominciò ad avvertire i sintomi della malattia, un tumore al pancreas, esattamente come il padre, che lo portò alla morte. L'8 dicembre Buzzati entrò in clinica - la madonnina - e si spense il 28 Gennaio del 1972. non volle l'estrema unzione.

...

CRETINETTI

non facilissima carriera al corriere  - carattere riservato - taciturno e  non ambizioso .   chiamato  ' cretinetti '   da tutti  fino a quando avra' l'amicizia di  un grande come indro montanelli.

  libreriamo.it
www.adhocnews.it/buzzati-quel-cretino-geniale

www.corriere.it/cronista-magico-un-libro-suoi-articoli-il-corriere 

http://biografieonline.it/biografia.Dino%20Buzzati

www.girodivite.it/antenati/xx3sec/_buzzati

 

 

 

bio
Dino Buzzati Traverso nacque a San Pellegrino di Belluno, il 16 ottobre 1906.
Scrittore, giornalista e pittore, legò il suo nome a molte attività.
Fondamentali per la sua formazione furono la villa di famiglia e la biblioteca, per la ricchezza di materiale al quale egli attinse.
Nei primi anni della sua infanzia egli rivolse l’ attenzione alle arti figurative e alla musica, dedicandosi allo studio del pianoforte e del violino, interessi che poi abbandonò.
Connaturata in lui fu la passione per la montagna, che coltivò intensamente.
Frequentò il liceo “Parini” a Milano dove conobbe Arturo Brambilla a cui fu legato da profonda amicizia.
Coltivò un interesse particolare per la cultura egizia; in seguito si avvicinò a esperienze letterarie e si iscrisse a giurisprudenza.
Nel 1928 entrò al Corriere della sera, diventandone poi redattore.

Nel 1933 uscì il suo primo romanzo, Bàrnabo delle montagne e due anni dopo
Il segreto del bosco vecchio, da cui i registi Mario Brenta e Ermanno Olmi trassero nel 1994 e nel 1993, i relativi film.
Raggiunse grande successo nel 1939 con Il deserto dei Tartari, dal quale nel 1976 Valerio Zurlino trasse il film omonimo.
In quegli anni si dedicò ai racconti, pubblicati in parte sul Corriere. Si dedicò anche alla pittura, al teatro e alla sceneggiatura.

Fu, da un certo punto di vista, un autore molto realistico, dato che inseriva nei suoi scritti i temi della solitudine e dell'angoscia, e uno dei pochi in Italia a promuovere i canoni della letteratura fantastica.
Morì a Milano il 28 gennaio del 1972.

anna lanzetta - tellusfolioi.it

 

la normalità dell’assurdo

Dino Buzzati Traverso nasce il 16 Ottobre 1906 a San Pellegrino, vicino Belluno, da una famiglia dell'agiata  borghesia: il padre insegna Diritto internazionale all'Università di Pavia, la madre, veneziana, è sorella dello  scrittore Dino Mantovani, assai noto nell'ultimo Ottocento. La villa bellunese è il fulcro della sua infanzia e l'origine dell'universo fanta-reale dello scrittore, con la sua suggestiva biblioteca, il granaio misteriosamente abitato dallo spirito di un antico fattore.

italialibri.net

 

 

La multiforme opera di Dino Buzzati - l'arcolaio - mauro germani

intervista alla moglie Almerina Buzzati oggi 71 anni
Che tipo di rapporto era il vostro?
«Di ottima amicizia. Io gli ho voluto veramente bene. Adesso non mi chieda se ero innamorata, perché non lo so. Lui era il mio amore, ma io non glielo dicevo, oppure glielo dicevo scherzando. Vista l’esperienza precedente, non volevo che l’amore diventasse una malattia anche tra noi due».
Avete avuto un matrimonio religioso. Ma il rapporto con Dio com’era in realtà per Dino? Si sentiva orfano di Dio?
«Non saprei. So che non frequentava la chiesa, come del resto io stessa. Quando è venuto il prete in clinica, la mattina in cui se ne è andato, Dino ha rifiutato l’estrema unzione chiedendomi di mandarlo via. Ho pregato il sacerdote di uscire, ma lui insisteva per impartirgli il sacramento. Così, mi sono alzata e ho dato un colpo all’ampolla dell’olio benedetto, facendola cadere in corridoio, fuori dalla camera: mentre il prelato si chinava a raccoglierla, io ho sbarrato immediatamente la porta. Dino, però, rispettava molto il sentimento religioso degli altri. Ed era molto affezionato alla giovane suor Beniamina, che accudiva malati nel suo reparto».
mauro guffuri - oggi.it - 2012

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Il Corriere della Sera   era la sua casa.       Lui la considerava tale - dice la moglie almerina.
su un atto di compravendita  rimasto inedito - relativo ad un appartamento dove visse con carla marchi -  si legge: Buzzati Traverso Dr. Dino - residente  in via Solferino 28 .

lorenzo vigano' - milano.corriere.it - 2015

Nel 1928 Dino Buzzati presenta regolare domanda d’assunzione al «Corriere della Sera» che in estate lo manda a chiamare.

Il 10 luglio varca per la prima volta la soglia di via Solferino, e la sera annota sul diario:

«Oggi sono entrato al Corriere, quando ne uscirò? - presto, te lo dico io, cacciato come un cane».
http://dinobuzzati.it

 

 

 

ALMERINA LA SPOSA BAMBINA
E' morta  il 22 novembre all'età di 74 anni Almerina  antoniazzi Buzzati - era stata operata alcuni giorni fa.
Sposata con Buzzati nel 1966, all'età di 25 anni, rimase vedova nel 1972: Dino aveva 66 anni quando morì per un tumore al pancreas. Tra di loro una differenza d'eta di 35 anni.
corrierealpi.gelocal.it - 2015
Si erano conosciuti nell’estate 1960, ai giardini di piazza Cavour dove Almerina, che di cognome faceva Antoniazzi, doveva posare in un servizio fotografico per la «Domenica del Corriere», di cui Buzzati fu per molti anni il direttore ombra. «Lo riconobbi subito», raccontava: «Era l’unico, con 40 gradi, a essere vestito di tutto punto: giacca, camicia, cravatta, scarpe stringate». Lei ha 19 anni, lui quasi 54. Si frequentano per un po’ (Buzzati si trova nel pieno dell’infelice storia d’amore che sta dietro al romanzo Un amore), poi si perdono. Quando, qualche anno dopo, si ritrovano non si lasciano più.

lorenzo vigano' - milano.corriere.it - 2015

 

 

 

 

visita in terrasanta con paolo VI - 1964
Paolo VI, uomo di vasta curiosità intellettuale, aveva letto il romanzo «Un amore»... e disse a Buzzati, gentile ma fermo: «si sposi».
qualcosa maturò in lui, tanto che scrisse ad Almerina la proposta di matrimonio, su carta intestata con marchio papale. I due si sposarono, senza clamore l’8 dicembre del 1966, nella chiesa milanese di San Gottardo... La lettera col bollo pontificio è andata perduta. Almerina la cerca tuttora. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.

antonio buzzo - milano.corriere.it - 2014


Che scherzo !


E se poi venisse davvero ?
Se a quell'ora precisa
mentre la nebbia oppure la pioggia nera
oppure comunque le caligini il fetido l'incubo nero
della notte sopra la pianura dell'umidità e dell'espansione economica
l'arcipelago delle luminarie
sempre più denso verso il centro
specialmente i cinema i bar le stazioni di servizio
e poi nel cuore della città
la massima concentrazione di luci
di lusso di soldi di gioia di vizio
se nei palazzi cascine falansteri
attraverso le illusioni e i misteri
lui davvero venisse ?
Che scherzo pericoloso, eh ?

Perché dicono dicono ma
non ci crede più nessuno.
Il proprietario del magazzino famoso
di articoli da regalo
non ci crede, e ne ride bonario
con le clienti in visone
anche il negoziante di giocattoli
sollevato dall'andamento straordinario
degli affari nonostante la recessione .

Non ci crede il capofamiglia
né lo scapolo né il coniugato
né il vecchio zio né la figlia
neppure la mamma sebbene
tenendoli sulle ginocchia
abbia dettato ai bambini le lettere
col presepio e il bordo dorato
destinazione Paradiso
in franchigia, senza riflettere
al rischio della mistificazione .

Non ci crede neanche don Saverio
il buon prevosto della parrocchia
non basta infatti la fede
per prendere veramente sul serio
questa antica superstizione .

E neppure ci credono i bambini
che avrebbero sufficiente ingenuità
voglia di miracoli, di fantasia
di mostri, di favole, ma
ci fu quel sorriso speciale
della mamma così ambiguo e allora
nacque in loro l'ipocrisia
per la prima volta, con la paura
tipicamente italiana
di passare per cretini.

Neanche loro dunque ci credono più
che alla mezzanotte del ventiquattro

carico di regali
in carte d'oro e d'argento
fra un grande sbattere d'ali
- ci saranno anche gli angeli, no ? -  
arriva il Bambino Gesù .

E se invece venisse per davvero ?
Se la preghiera, la letterina, il desiderio
espresso così, più che altro per gioco
venisse preso sul serio ?
Se il regno della fiaba e del mistero
si avverasse? Se accanto al fuoco
al mattino si trovassero i doni
la bambola il revolver il treno
il micio l'orsacchiotto il leone
che nessuno di voi ha comperati ?
Se la vostra bella sicurezza
nella scienza e nella dea ragione
andasse a carte quarantotto ?
Con imperdonabile leggerezza
forse troppo ci siamo fidati .

E se sul serio venisse ?
Silenzio! O Gesù Bambino
per favore cammina piano
nell'attraversare il salotto
Guai se tu svegli i ragazzi
che disastro sarebbe per noi
così colti così intelligenti
brevettati miscredenti
noi che ci crediamo chissà cosa
coi nostri atomi coi nostri razzi .
Fa piano, Bambino, se puoi .

- lo strano natale di mr. scrooge e altre storie - 1990
- novità n. 165 dicembre 1964/gennaio 1965

I PERCHE'
Scrivere per i bambini è molto più difficile che scrivere per i grandi, i quali più o meno si sa come la pensino.    
I ragazzi sono i lettori più aperti, più disinteressati, insomma i meglio disposti per accogliere il discorso umano di uno scrittore. Dicendo questo io non intendo affatto affermare che siano i più sprovveduti. Al contrario, penso che piacere a un ragazzo sia una cosa difficilissima. Innanzi tutto perché bisogna raccontargli delle storie che stiano in piedi, in secondo luogo perché bisogna adoperare un linguaggio immediato che vada dritto al cuore.    Un ragazzo capisce subito quando uno scrittore fa sul serio e quando, invece, cerca di barare.     -DB

intervista -1971
tempodilibri.it - frizzifrizzi.it - 2018

VIAGGIO AGLI INFERNI DEL SECOLO
Sembra.

Ma esiste anche l’altra parte della casa, la parte di dentro, le viscere le budella i segreti dell’uomo. Non c’è Natale né sole di maggio né alba di cristallo, bensì luce di gesso grigia uniforme nel cortile che si inabissa alle due e mezza due e tre quarti del pomeriggio, sì, potrebbero essere le flosce quattordici e quaranta di una tepida infingarda maledetta domenica.
Vedete proprio qui sotto, sulla parete di sinistra, quel rientramento dove la luce stenta a penetrare, con una fila di misteriose finestre. Ivi si annidano gli esseri umani, illusi di non essere visti. Fuori, nella strada, l’animazione i traffici i soldi l’energia la lussuria la convulsa battaglia. Qui nel cortile dei condominii universali le aride solitudini nostre vostre.
Finestra del piano nono aperta al mio fianco: una specie di guardaroba contenente un bambino. Avrà sei anni, è brutto, è seduto per terra, è vestito bene, è immobile in mezzo a sparsi detriti di giocattoli paperini pupazzi, il padre al lavoro, la mamma di là con qualcuno. Ora con una serietà tremenda e lentezza si alza e cammina verso l’uscio, visto di schiena ha cinquantotto anni per lo meno, così esattamente sarà da vecchietto. Afferra la maniglia, la gira, spinge, ma il battente non s’apre, l’hanno chiuso dall’altra parte a chiave. «Mamma mamma» grida allora, ma appena due volte. Serissimo, ritorna in mezzo alla stanza, solleva un bambolotto che di qua non si distingue bene, svogliato lo lascia cadere. Nuovamente si siede a gambe divaricate con la facilità che hanno i bambini, non guarda alla finestra tanto sa che è inutile, guarda invece una cosa nell’angolo che di qui non si vede, fissamente, e di là una voce acuta e divertita simile a un “ohi ohi!”, poi di nuovo il silenzio. Si chiudono e aprono le due manine sul pavimento di linoleum come per afferrare qualcosa che non c’è, adagio adagio singhiozzando.
Piano ottavo, grande studio, mobili elettronici, l’uomo è seduto alla scrivania, la penna in mano per correggere la relazione manoscritta, ma la penna non si muove. Ha quarantacinque anni, baffetti e occhiali, ricco, abituato a comandare. La sedia della segretaria è deserta, se ne sono andati i commissionari i fiduciari dei consorzi i consiglieri delegati i rappresentanti delle Americhe i banchieri i plenipotenziari è venuta la sera. Passato l’orario, nessuno infatti ha più bisogno di lui, tacciono stanchi i cinque telefoni neri, l’uomo li guarda ansioso, indefinibile sete interna, non bastandogli le grandi potenti solide invidiate cose che ha. Bisogno di libertà? di follia? Di giovinezza? di amore? Scende la sera è discesa la sera, ad uno ad uno, l’importante l’autorevole il temutissimo vedo che prende i cinque telefoni neri, se li mette sulle ginocchia e li accarezza come gatti sornioni ed egoisti. Trillate suonate chiamate rompetemi le scatole fedeli amici di tante battaglie, non parlatemi solo di ordinativi di cifre di tratte almeno una volta parlatemi di altre stupide cose. Nessuno però dei cinque gattoni si muove, duri ermetici muti nessuno risponde ai tocchi delle impervie mani. Di fuori, nel vasto regno, di là delle quattro pareti tutti certo lo conoscono e sanno il suo nome, ma ora che la terribile notte verrà nessuno lo cerca lo chiama, né donna né pezzente né cane, non hanno più bisogno di lui.

V - le solitudini

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scrivere per ragazzi è come scrivere per gli altri, solo più difficile

.

 

  

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