john
peter
berger
' storyteller '
BERGER 1
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Lettera aperta sulle carceri a Raymond Barre, sindaco
di Lione
Mentre voi sognate
di
John BERGER
Signor sindaco,
Mi è stato chiesto di scriverle mentre lei sta
sognando, e non è facile. I sogni hanno una naturale inclinazione a
tacere di talune cose, una forma tutta loro di mistero e un rapporto
molto particolare, intimo e inesplicabile, con ciò che può essere
vero. Mi tocca avanzare in punta di piedi per non svegliarla,
evitando le linee rette; altrimenti il suo sogno si fermerebbe. In
un sogno, nulla è insignificante.
* Il carcere di Saint Joseph fu costruito a Lione tra il 1829 e il
1830. Sorge di fronte al Rodano, appena prima della confluenza con
la Saône.
Quarant'anni dopo, un secondo carcere, Saint Paul, è stato edificato
accanto a quello di Saint Joseph. La costruzione, di forma
esagonale, concepita secondo i nuovi procedimenti edilizi, con largo
uso di metallo, era destinata ad essere un carcere femminile. In
luogo delle celle, era dotata di quattro dormitori. Oggi questi due
edifici, collegati da un tunnel sotterraneo, costituiscono la
principale Casa di Detenzione. Le celle hanno ripreso il posto dei
dormitori. Chi conosce questo complesso carcerario lo chiama «la
Marmitta del diavolo».
La maggior parte delle teorie o delle idee sulle carceri hanno buone
probabilità di essere sbagliate, poiché la pratica è una sfida
permanente a tutto ciò che si era previsto. La detenzione, il modo
in cui gli spazi si collegano tra loro, gli orari, i codici,
l'isolamento o il sovraffollamento - tutto questo sfocia
nell'imprevedibile, nei cui confronti alcuni detenuti sono più
vulnerabili di altri, ma tutti coloro che si trovano all'interno -
compresi i carcerieri e lo stesso direttore - sono talora impotenti.
Le carceri sono concepite e attrezzate per far sì che la
sorveglianza sui detenuti - quella elettronica in particolare -
possa essere esercitata al massimo livello e in ogni momento. Ciò
non toglie che, in pratica, l'incontrollabile è costantemente
presente. In nessun'altra istituzione sulla terra l'incontrollabile
può esplodere in maniera così improvvisa.
Quando raggiungono il limite estremo della disperazione, gli esseri
umani trovano la saggezza, oppure sfuggono a ogni controllo - che si
tratti di quello imposto da un sistema o del loro controllo su se
stessi. L'incontrollabile e la saggezza sono rinchiusi in una stessa
cella, dietro la stessa porta della disperazione assoluta.
Accade talvolta che l'incontrollabile penetri nel corpo stesso del
carcerato. Questo fenomeno «spiega» i frequenti casi di
automutilazione.
Gli esseri umani arrivano a mutilarsi perché il carcere, con tutto
il suo incontrollabile, è già penetrato nei loro corpi. Il niente
non ferma niente. La mutilazione non si infligge al sé ma a ciò che
lo ha compenetrato, prima ancora di inghiottire un cucchiaio, un
bicchiere rotto o un coltello. * Chi era Delandine? Potrebbe essere
stato il soprannome di una donna.
La sola cosa certa è che ha dato il nome a una strada, una breve
viuzza che separa le due prigioni. Dopo mezzanotte e nei fine
settimana, questa via, di giorno per lo più deserta, è invasa da
gente che viene a parlare, a lanciare parole, al di là delle alte
muraglie, ai carcerati rinchiusi lì dentro. Alcune grida rimbalzano
come un boomerang. «Anch'io ti amo!» E da un'altra finestra: «Levati
dai piedi, va', e lasciami in pace! » I visitatori vanno a rue
Delandine dopo mezzanotte, quando il tumulto della città si placa ed
è più facile ascoltare e farsi sentire. Ma il lunedì sera spesso non
c'è nessuno. Il lunedì, il silenzio della via si riempie di qualcosa
di totalmente diverso. Continui a sognare, signor sindaco, e lo
potrà sentire. Dietro le mura, al di là di un minuscolo cunicolo, a
ridosso della seconda serie di mura, a destra e a sinistra, si ha
l'impressione di un sonno ammassato; e a fronteggiarlo, quasi
toccandolo, la totale indifferenza delle pietre squadrate, delle
sbarre in ferro e dei mattoni cementati, in una vicinanza strana,
persino più crudele di quella della terra pressata intorno ai
cadaveri.
* Qual è, secondo lei, signor sindaco, l'edificio che ospita il più
gran numero di sogni? La scuola? Il teatro? Il cinema? La
biblioteca?
L'Hotel Intercontinental? La discoteca? E se fosse il carcere?
Innanzitutto, un carcere moderno è fondato su tutto un insieme di
sogni: il sogno della Giustizia civica, il sogno della Riforma, il
sogno della Polis della Virtù civica.
E poi ci sono i sogni sognati adesso, notte per notte. Che certo
comprendono anche gli incubi e il terrore dell'insonnia. In talune
circostanze, l'insonne può, come il sognatore, perdere ogni senso
fisico del tempo e del luogo. All'interno delle mura, al di là degli
stretti cunicoli, c'è il Grande Sogno permanente dell'Evasione; e
tra i secondini, l'incubo permanente della Rivolta di un
prigioniero.
E in più, c'è l'infinita successione dei sogni più esili. Il sogno
del mare - il Rodano è appena al di là di un giardino, e i piccioni
che sporcano le inferriate sorvolano il fiume. Il sogno di prendere
il Tgv per Parigi: ne parte uno ogni ora, e la linea passa ancora
più vicino del Rodano. Sogni di vita privata, di un tempo e di uno
spazio privati. Scegliersi una data - ad esempio sabato, 6 maggio -
in cui si farà qualcosa che si è deciso di fare per proprio conto!
Sabato andrò a trovare mio cognato a Bapaume. Sogni di donne. Sogni
di porte aperte. Sogni di sabato sera. Sogni furiosi di farla
finita. Sogni della fine delle cazzate.
C'è infine il sogno forse più costante, più onnipresente di tutti.
A Saint Joseph, nelle celle di isolamento, nel pretorio dove due
volte la settimana si assegnano le punizioni per insubordinazione,
nelle docce, nel cortile per l'ora d'aria circondato da
un'inferriata cosparsa di detriti al posto delle stelle, ci sono
esseri umani, accovacciati o seduti davanti alla Tv, sulle scale,
dentro la gattabuia.
Di volta in volta bestemmiano o se ne stanno in silenzio, giorno e
notte, anno dopo anno. E all'improvviso si mettono a sognare le loro
migliaia di madri: molte sono scomparse o morte, ma proprio per
questo trovano istantaneamente la strada attraverso i muri del
carcere. E una volta all'interno della casa di detenzione, alcune di
queste madri raccontano storie ai loro figli. Moltissime storie.
Eccone una, signor sindaco.
* C'era una volta un uomo che ogni mattina prendeva un coltello e
ritagliava nel pane una fetta lunga 10 centimetri circa, che buttava
via prima di tagliarne un'altra per la sua colazione. L'uomo faceva
questo perché ogni notte i topi rodevano la mollica del suo pane. E
ogni mattina lasciavano un buco lungo pressappoco quanto un topo. I
gatti della casa, pur grandi cacciatori di talpe, erano stranamente
indifferenti ai grigi topi mangiatori di pane - a meno che non si
fossero venduti a questi ultimi.
Un pomeriggio, l'uomo va in una rimessa per cercare una lima. Non la
trova, ma si imbatte in una solida trappola per topi, una specie di
gabbia, evidentemente di fabbricazione artigianale. Alla base ha una
tavoletta di legno di 18 x 9 cm, circondata da un fitto intreccio di
filo di ferro.
Lo spazio tra due fili di ferro paralleli non supera
mai 5 mm, quanto basta per permettere a un topo di infilare
nell'interstizio la punta del naso, ma non le due orecchie. La
gabbia è alta 8,5 centimetri, tanto che all'interno un topo può
alzarsi sulle sue forti zampette posteriori, aggrapparsi alla parte
alta dell'inferriata con le quattro dita di quelle anteriori e
spingere il muso tra due fili di ferro - ma senza mai poter fuggire.
Il topo penetra nella gabbia per dare un morso a un pezzo di
formaggio appeso a un gancio. Non appena lo tocca, un congegno fa
scattare la porta che si chiude con un colpo secco dietro il topo,
senza neppure dargli il tempo di voltare la testa. Passano varie ore
prima che il topo si renda conto di essere imprigionato, indenne, in
una gabbia di 18 x 9 cm. Quando ne prende coscienza, qualcosa in lui
incomincia a tremare senza posa.
L'uomo appende al gancio un pezzo di formaggio e sistema la trappola
sul ripiano della credenza in cui tiene il pane. L'indomani, trova
nella gabbia un topo grigio, con due occhi scurissimi che lo fissano
senza neppure un batter di ciglia. L'uomo posa la gabbia sul tavolo
della cucina. Più guarda dentro la gabbia, e più il topo seduto lì
dentro gli appare simile a un canguro. Cala il silenzio. Il topo si
calma un po', ma poi ricomincia a girare su se stesso nella gabbia,
tastando incessantemente con le dita delle zampine anteriori lo
spazio tra i fili di ferro, alla ricerca di un'anomalia. Tenta di
morderli.
Poi si accoscia, le zampette anteriori davanti alla bocca. Capita
raramente di guardare un topo così a lungo come fa l'uomo. E
viceversa.
* Le voci provenienti da rue Delandine interrompono la storia.
Di' ad Alex di mandare i soldi.
Gliel'ho detto.
Digli che se non lo fa, si sentirà la puzza di bruciato.
Non ho capito.
Si sentirà la puzza di bruciato.
* L'uomo porta la gabbia in un campo, fuori dal villaggio; la depone
sull'erba e apre lo sportello. Passa un minuto buono prima che il
topo si renda conto che la quarta parete è scomparsa. Col musetto
verifica lo spazio libero. Poi si precipita a tutta velocità, e va a
nascondersi dentro il primo ciuffo d'erba.
* Ti aspetterò, Jacko. Ti amo Jacko. Il tempo non conta, Jacko, io
ti aspetto.
* L'indomani l'uomo trova un altro topo nella gabbia. È più grosso
del primo, ma più agitato. Forse è anche più vecchio. L'uomo depone
la gabbia per terra e si siede lì accanto per osservare. Il topo si
arrampica sui fili di ferro in alto e si mantiene sospeso con la
testa all'ingiù.
* Perdonami, Toni, mi senti? Perdonami! * Quando, giunto nel campo,
l'uomo apre lo sportello, il vecchio topo scappa procedendo a
zig-zag prima di scomparire. Un mattino, l'uomo trova nella gabbia
due topi. Difficile dire se hanno coscienza l'uno della presenza
dell'altro, e indovinare se questa presenza attenui o accresca la
loro paura. I topi hanno una somiglianza con i canguri per via della
forza relativamente enorme delle zampe posteriori, e del modo in cui
puntano a terra la loro robusta coda per darsi lo slancio quando
saltano.
* Lenuta, mi senti? Jo-Jo non è più all'ospedale. Ti manda
tantissimi baci.
Digli che il nostro accordo per Varsavia è sempre valido.
* Nel campo, quando l'uomo solleva la quarta parete della gabbia, i
due topi non esitano. Se ne scappano subito, fianco a fianco, ma poi
si allontanano in direzioni opposte, l'uno verso est, l'altro verso
ovest.
* Mi senti, Gilles? Gilles, dimmi che mi senti. Gilles, oggi ti ho
mandato un pacco con tutta la roba da mangiare che hai chiesto.
* Nella credenza, il pane non è stato quasi toccato. Quando l'uomo
solleva la gabbia, il topo ha la solita reazione di panico, ma si
sposta più pesantemente. L'uomo esce dalla cucina per andare a
ritirare la posta e per scambiare due parole col postino. Quando
torna, ci sono nella gabbia nove topolini appena nati, rosei,
perfettamente formati. Ciascuno di loro è grande quanto due chicchi
di riso lunghi.
Dieci giorni dopo, l'uomo si chiede se qualcuno dei topi liberati
nel campo non potrebbe tornare in casa sua. A pensarci bene, gli
sembra poco probabile. Li ha osservati tutti con tanta attenzione da
convincersi che se uno di loro tornasse, lo riconoscerebbe
immediatamente, indipendentemente dal sesso.
* Harry! Sono io! Non sono potuta venire mercoledì. Harry, stasera
ci sono! Harry mi ha detto di dirti se venivi. E' stato trasferito
all'ospedale.
Non ci voleva andare. Ce l'hanno portato, all'ospedale. Gli hanno
bloccato le gambe e ce l'hanno portato.
* Nella gabbia, il topo tiene la testa china, come se portasse un
berretto.
Ha le zampe posteriori raccolte lungo il corpo, allungate a terra,
tanto che gli arrivano quasi alle orecchie. Le orecchie sono ritte e
la coda è tutta distesa dietro di lui, puntata con forza contro il
pavimento della gabbia. Il cuore gli batte violentemente, quando
l'uomo solleva la gabbia ha paura. Però non si nasconde dietro la
molla: rimane lì senza muovere neppure un muscolo. La testa è in
atteggiamento di sfida; guarda senza distogliere gli occhi. Per la
prima volta, all'uomo viene in mente un nome: Alfredo. Lo chiamerà
così. Posa la gabbia sul tavolo della cucina, accanto alla sua
tazzina di caffè.
Più tardi l'uomo va al campo, si inginocchia, depone la gabbia
sull'erba e tiene aperto lo sportello, ovvero la quarta parete della
cella.
Il topo si avvicina al portello aperto, alza la testa e spicca un
salto. Non si precipita, non si slancia, prende il volo. Tenuto
conto delle sue dimensioni, fa un salto più alto e più lungo di
quello di un canguro. Balza fuori come un topo che recuperi la sua
libertà.
In tre salti ha già percorso più di cinque metri. L'uomo, sempre in
ginocchio, continua a guardare quel topo che ha chiamato Alfredo
saltare senza sosta verso il cielo.
* Ricominceremo, tesoro mio, ripartiremo da zero.
* La mattina seguente il pane è intatto. L'uomo pensa che il topo
nella gabbia potrebbe essere l'ultimo. In ginocchio, nel campo fuori
dal villaggio, aspetta tenendo aperto lo sportello. Passa un bel po'
di tempo prima che il topo si renda conto di essere libero. Quando
finisce per capirlo, si precipita verso il ciuffo d'erba più vicino
e più folto. E l'uomo si sente un po' contrariato, prova una stretta
al cuore, lieve ma acuta: aveva sperato di poter vedere ancora una
volta nella sua vita un carcerato che spicca il volo, un prigioniero
che realizza il suo sogno di libertà.
Lei sta ancora sognando, signor sindaco, ne sono certo. Se ho ben
compreso, la prima fase del suo vasto piano di riassetto del centro
di Lione (un piano al quale ha dato il magico nome di «Confluenza»),
è la demolizione delle carceri di Saint Joseph e di Saint Paul. Cosa
mettere al loro posto? Posso darle un suggerimento? L'area occupata
dai due stabilimenti carcerari non è molto grande: meno di due
ettari.
Immagini questo luogo trasformato in un meleto, che potrebbe servire
da parco pubblico. Per la prima volta nel mondo vi sarebbe un meleto
nel cuore di una grande città! E la fioritura primaverile, e i
frutti di fine ottobre richiamerebbero alla memoria tutti i sogni
sognati qui. Qui, signor sindaco, qui, se posso permettermi di
insistere.
Recentemente, signor sindaco, sono andato a trovare il mio amico
Zima Lewandowski nei pressi di Zamosc, in Polonia, non lontano dal
confine con l'Ucraina. È uno dei maggiori ingegneri forestali del
suo paese; ha scoperto un nuovo metodo per determinare l'età degli
alberi. Gli ho parlato del nostro progetto - del progetto di cui lei
sta sognando; quello di un meleto nel cuore di Lione; e gli ho
chiesto un consiglio sul tipo di melo più adatto. Mi ha fatto alcune
domande sul clima e sulle condizioni atmosferiche della città; poi
ha dichiarato: gli Spartan! Questi sarebbero i meli più adatti al
luogo. Producono mele tardive, che si raccolgono in ottobre, e se si
conservano bene durano tutto l'inverno. Il parco potrebbe chiamarsi
«frutteto Delandine», non le pare, signor sindaco? Quanto alle mele Spartan, sono di un rosso brunastro, un colore simile a quello di un
minerale strappato alla terra. Secondo Zima, gli alberi si
dovrebbero piantare ogni 6 - 8 metri. Le celle attuali misurano 3 x
3,6 metri.
nota :
John BERGER Scrittore
articolo ispirato ad un luogo in progettazione nel quartiere
Confluent di Lione, è stato redatto nell'ambito di una raccolta di
testi letterari su invito e a cura di Henry Chabert, deputato e
vicesindaco della città.
monde-diplomatique.it
monde-diplomatique.fr
***
comparée au chant transparent
des oiseaux
notre parole est opaque
parce que contrairement à eux qui sont la vérité
nous sommes obligés de la chercher
WHY
LOOK AT ANIMALS ?
http://nbrokaw.files.wordpress.com/2010/09/why-we-look-at-animals.pdf
>>
.PDF
PERCHE GUARDIAMO GLI ANIMALI ?
Lo sguardo di un cane, con la sua muta
urgenza, può interrogare in modo profondo, indicando realtà che
sfuggono all’attenzione umana. Una lepre che attraversa un confine,
davanti agli agenti di frontiera, rivela quanto ci sia di arbitrario
nelle convenzioni che governano il nostro quotidiano. Rispecchiarsi
negli occhi di un orango equivale a un viaggio nel tempo lungo
millenni, e il bagliore emanato da una lucciola può apparire ancora
più gelido e remoto di quello di una stella.
Da sempre gli animali occupano il centro
dell’universo insieme all’uomo: nell’antichità venivano utilizzati
per popolare lo zodiaco, e gli indù immaginavano che la Terra fosse
sorretta da un elefante, a sua volta in piedi sul guscio di una
tartaruga. Li guardiamo da sempre, perché sono esseri senzienti e
mortali come noi, eppure radicalmente diversi: osservandoli abbiamo
imparato a definire che cosa è umano, e il loro sguardo ci è ancora
indispensabile.
Oggi gli animali abitano le case di milioni di
persone, le loro fotografie invadono il web e le pagine dei
giornali: sono dappertutto, eppure stanno scomparendo, perché è
sempre più rara la possibilità di un incontro, sostituita dallo
spettacolo di documentari, cartoni animati e giochi per bambini.
Stanno perdendo il ruolo di messaggeri di un «oltre» segreto,
dell’abisso che si trova al di là del linguaggio e parla della
nostra origine, della nostra solitudine come specie.
ilsaggiatore - amazon - 2016
.
Part of Penguin's Great Ideas series, this slim book
brings together seven of John Berger's essays from 1971-2001, a poem, a
drawing and a new story. Apart from the final piece - a moving memoir on the
death of Austrian intellectual Ernst Fischer - the theme is the
marginalisation of animals. The title essay (1977) explores the ancient
relationship between animals and humankind: an "unspeaking companionship".
But today the caged creatures in zoos have
become "the living monument to their own disappearance"
from culture. In all these pieces, what concerns
Berger is the loss of a meaningful connection to nature, a connection that
can now only be rediscovered through the experience of beauty: "the
aesthetic moment offers hope." Berger's writing is wonderfully physical,
with a powerful sense of how things look, smell, feel. At his best he shows
how everyday experiences - a swallow straying into a room, the performances
of primates in a zoo, a peasant carving - hold the aesthetic key to unlock
the true order of things.
guardian.co.uk
-
lmda.net
The cultural marginalization of animals is,
of course, a more complex process than their physical marginalization. The
animals of the mind cannot be so easily dispersed. Sayings, dreams, games,
stories, superstitions, the language itself, recall them. The animals of the
mind, instead of being dispersed, have been co-opted into other categories
so that the category animal has lost its central importance. Mostly they
have been co-opted into the family and into the spectacle.
aml4453uf.wordpress.com
***
What reconciles
me to my own death more than anything else
is the image of a place: a place where your
bones and mine are buried, thrown, uncovered, together. They are
strewn there pell-mell. One of your ribs leans against my skull. A
metacarpal of my left hand lies inside your pelvis. (Against my
broken ribs your breast like a flower.) The hundred bones of our
feet are scattered like gravel. It is strange that this image of our
proximity, concerning as it does mere phosphate of calcium, should
bestow a sense of peace. Yet it does. With you I can imagine a place
where to be phosphate of calcium is enough.
jb
theguardian.com
- 2013
NON CHIAMATEMI ROMANZIERE RACCONTO SOLO
STORIE
Ci sono due cose che determinano le mie idee: la presenza di un
mistero dell' arte e la solidarietà con gli emarginati.
L' intervista è
per John Berger una fatica. Fisica e intellettuale. Sospira, si
arrabbia, si batte le mani sulla fronte, farfuglia e sbuffa,
alternando partenze a razzo a bruschi silenzi in cerca di una
precisione nel pensiero. L' avanzare dell' età - nato a Londra il 5
novembre del ' 26 - è solo una delle ragioni: «Ci sono domande -
dice - a cui potrebbero rispondere meglio i lettori».
Che cosa l' ha spinta a tradurre Murale, il poema di Mahmud Darwish?
«La mia identificazione con la lotta
palestinese.
Darwish
possedeva uno humour straordinario. In Palestina si è sempre
circondati dalle conseguenze delle ingiustizie. Fisicamente,
visivamente. Però è uno dei posti dove si ride di più. Il sentimento
della perdita lo si divide con gli altri, e lo scopo è sopravvivere.
Nelle sue poesie ritrovo tutto ciò. Il mio problema era riprodurne
il respiro. Non basta prendere una parola e spostarla dall' altra
parte. Bisogna andare a vedere dietro la parola, e dietro c' è
qualcosa di preverbale che appartiene al corpo intero di una
cultura. Quando lo si trasporta nella lingua d' arrivo bisogna
cercare un equivalente. Tradurre significa passare attraverso, in
profondità».
Sente un legame con uno scrittore in particolare in questo momento
della sua vita?
«Provo una enorme fascinazione per
Pasolini. A lui
mi unisce la stessa visione del mondo dei contadini. Sono dei
sopravvissuti. Tempo fa, scrivendo su di lui, mi sono detto che c'
era qualcosa di angelico. Era assurdo, avrebbe odiato essere
definito così. Poi una mattina, svegliandomi, una voce ha detto vai
e guarda il San Giorgio e la principessa di Cosmé Tura. Ho rivisto
la fermezza nello sguardo di San Giorgio, la sua pena, la precisione
con cui uccide il drago, il senso di necessità privo di
compiacimento. La somiglianza con Pasolini non è fisica, è di
anima».
Lei da chi ha imparato di più?
«Ho abbandonato la scuola a sedici anni. Da
allora non ho più avuto una educazione ufficiale.A trentotto anni mi
trasferii in un villaggio, Quincy, dove sto ancora adesso, in Alta
Savoia. All' epoca c' erano molti vecchi contadini, uomini e donne,
che seguivano le tradizioni rurali esistenti da centinaia di anni.
Ho trascorso con loro tanto tempo, parlando, ridendo, restando in
silenzio. Mi hanno trasmesso una serie di valori di cui erano i
guardiani». Il primo della lista? «Per
loro il passato coesiste con il presente. La morte è nella vita. Non
perché siano nostalgici o conservatori. Il senso di continuità e la
condivisione delle esperienze rendono il passato qualcosa che fa
compagnia al presente, e anche al futuro.
La loro cultura è l' esatto opposto del tempo assoluto, istantaneo
del consumismo, che si basa sulle promesse che la pubblicità ci
offre. È crudele il loro mondo? Affrontare la realtà non preclude la
dolcezza o la sensibilità».
sebastiano triulzi - ricerca.repubblica.it - 2012
the poverty of our century
is unlike that of any other, it is not as poverty was before - the
result of natural scarcity but of a set of priorities imposed upon
the rest of the world by the rich.
consequently the modern poor are not pitied
but written off as trash. the 20th century consumer economy has
produced the first culture for which a beggar is a reminder of
nothing .
rich and poor - 1991
Il mio cuore
nudo alla nascita
era fasciato di ninnenanne.
Più tardi da solo si è vestito
di poesie.
Come camicia
ho portato sul dorso
la poesia che avevo letto.
Così ho vissuto per mezzo secolo
finché privi di parole ci siamo
incontrati.
Dalla camicia sullo schienale
della seggiola
scopro stanotte
per quanti anni
di studio a memoria
ti ho aspettata |
Noi con la
nostra lingua vagabonda
noi con i nostri incorreggibili
accenti
e una parola diversa per dire
latte
noi che veniamo in treno
e ci abbracciamo sulle banchine
noi e i nostri carri merci
noi la cui voce è in nostra
assenza
incorniciata sulla parete di una
camera da letto
noi che abbiamo in comune tutto
e niente -
questo niente che spezziamo in
due
e mandiamo giù con un sorso
dalla stessa bottiglia
noi a cui il cuculo
ha insegnato a contare
in quale valuta
hanno cambiato il nostro canto ?
Nei nostri letti solitari
che ne sappiamo noi di poesia ? |
THE
SEASONS IN QUINCY: FOUR PORTRAITS OF JOHN BERGER
trailer
documentario 2016
Art and Property Now
- 2016 nel
2009 John Berger donò alla British Library il proprio archivio
letterario. -
Quel che mi interessa degli archivi è che entrandoci si accede al
passato ma un passato per così dire al presente
... I somewhere
am perhaps deeply unmercantile, and
it is market forces as they are now called who at the moment are
ruling - both materially and socially, and politically - the planet.
Therefore if one can take decisions and do things which have nothing
to do with the values behind those market forces, then so much the
better. jb
kcl.ac.uk - 2016
.
l'ambiguità della
fotografia Fotografia
e verità
Ciò che fa della fotografia una strana
invenzione, con effetti imprevedibili, è che le materie prime con
cui lavora sono la luce e il tempo.
Cominciamo però con qualcosa di più tangibile.
Alcuni giorni fa un amico ha trovato questa foto e me l’ha mostrata.
Non ne so nulla. Il modo migliore per datarla è probabilmente la
tecnica fotografica utilizzata. Diciamo tra il 1900 e il 1920. Ma
non so se sia stata scattata in Canada, nelle Alpi, in Sudafrica o
altrove. Tutto quello che mostra è un uomo sorridente di mezza età
con il suo cavallo.
Perché è stata scattata? Quale significato
aveva per il fotografo? E aveva lo stesso significato anche per
l’uomo con il cavallo?
Ci potremmo inventare soprattutto una serie di
possibili significati: L’ultimo poliziotto a cavallo (il suo sguardo
allora ci appare nostalgico); L’uomo che incendiava le fattorie (lo
sguardo allora ci appare sinistro); Alla vigilia di una spedizione
di duemila miglia (lo sguardo assume un’aria vagamente preoccupata);
Di ritorno da una spedizione di duemila miglia (lo sguardo esprime
modestia)...
L’informazione più definita che il fotografo ci fornisce riguarda il
tipo di briglia portato dal cavallo, ma questa non è certamente la
ragione per cui è stata scattata. Osservando la foto è difficile
perfino dire a quale categoria appartenga: una foto tratta
dall’album di famiglia, l’immagine ricavata da un giornale,
l’istantanea scattata da un viaggiatore?
Potrebbe essere stata scattata non per
l’interesse nell’uomo ma per quello nel cavallo? Cosa faceva l’uomo?
Era un fantino, o qualcuno che semplicemente reggeva un cavallo? O
un allevatore? La foto potrebbe anche essere un fotogramma di uno
dei primi film western.
Questa fotografia costituisce la prova
irrefutabile dell’esistenza dell’uomo, del cavallo e della briglia.
Eppure non ci dice nulla sul significato della loro esistenza.
berger john and jean mohr. Another way of telling - pantheon 1982
politesi.polimi.it
Quando riteniamo che una fotografia sia
significativa, è perché le prestiamo un passato e un futuro. Il
fotografo professionista cerca, quando scatta una foto, di scegliere
un istante che persuaderà l’osservatore a prestarle un passato e un
futuro adeguati. L’intelligenza del fotografo o la sua empatia con
il soggetto decide per lui che cosa sia appropriato. Però,
diversamente dallo scrittore, dal pittore o dall’attore, il
fotografo opera soltanto, in ogni foto, una singola scelta
costitutiva: la scelta dell’istante da fotografare. La foto, se
paragonata ad altri media, risulta quindi povera di intenzionalità.
-JB
fotografia e verità
Mi piacevano i libri che mi portavano in
un’altra vita. Ecco perché ho letto i libri che ho
letto. E ne ho letti tanti.
Tutti parlavano di vita vera, ma non di ciò che stava capitando a me
un momento prima che ritrovassi il segno e riprendessi la lettura.
Quando leggevo, perdevo la nozione del tempo.
Le donne si interrogano sempre rispetto alle altre vite, di solito
gli uomini sono troppo ambiziosi per capirlo .
qui dove ci incontriamo
Inquieto flâneur
Berger ha una rara maestria nel
trascrivere sulla pagina quello che ha colto. Guarda le
immagini con un occhio non contaminato da sovrastrutture culturali e
ideologiche. I riferimenti storici, per lui, sono
come sfondi sui quali compone una drammaturgia narrativa melodiosa,
ritmica, piana, che però, d’incanto, sembra infiammarsi .
... Non è facile parlare di John Berger.
Descriverne le tante identità è quasi impossibile.
Non ha un analogo nel panorama della cultura europea del secondo
dopoguerra .
vincenzo trione - oblique.it - unipd.it - corriere.it
BERGER 1
1a
2
N O V I V I
S E Z I O N E
www.lav.it www.enpa.it
odE
AL GATTO
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