dario antiseri

 

Coloro che credono nell'uomo quale è

e non hanno dunque abbandonato la speranza di vincere la violenza e l'irrazionalità  

devono esigere che a ogni uomo sia dato il diritto di organizzare autonomamente la propria vita

nella misura in cui ciò è compatibile con gli eguali diritti degli altri

 





Dario
Antiseri  -   cattolici-liberali.com   -  società chiusa società aperta

Che ingombrante il suo libro, professor Popper

"Mi è dispiaciuto leggere nella sua lettera che lei considera il principio di "libertà valido nella misura in cui non interferisce con le libertà altrui" come "assolutamente inutile". Sebbene tale principio non sia abbastanza e debba essere supportato da altre idee di tipo morale, non penso che lei abbia ragione; e, mi spiace dirlo, le sue argomentazioni su questo particolare punto ricordano quelle di Hegel (il quale aveva contestato la stessa cosa a Kant). Questo è il motivo per cui sono dispiaciuto".
A dispiacersi è Karl Popper in una lettera scritta il 15 agosto del 1946 a Ernst Gellner, come risposta a una lettera inviatagli da costui e contenente dei rilievi critici riguardanti La società aperta e i suoi nemici, opera che era stata pubblicata pochi mesi prima dalla Routledge di Londra.
Nel dopoguerra il mondo filosofico inglese era dominato dalla filosofia analitica e Gellner, deciso avversario della filosofia del linguaggio, venne chiamato alla London School per insegnare filosofia agli studenti di sociologia come alternativa alla possibilità di frequentare le lezioni di Popper.
Fu allora che Gellner conobbe Popper. I due, durante i venti anni in cui furono colleghi, ebbero pochi e informali contatti. Ma, verso la fine della sua vita, Gellner dichiarò che l'influenza di Popper su di lui non era stata seconda a quella di nessuno.
Ammirata come un classico del pensiero liberale, La società aperta e i suoi nemici è stata anche oggetto dei più velenosi attacchi. Scrivono J. Jarvie e S. Pralong: "Gli essenzialisti, gli studiosi di Platone, gli storicisti, i marxisti e i positivisti che erano stati attaccati nel libro adottarono varie tattiche difensive, compresi il travisamento e la denigrazione. Ma la tattica più diffusa e di maggior successo fu quella di ignorare Popper".Persino figure di primo piano come Leo Strauss ed Eric Voegelin si lasciarono sfuggire commenti velenosi. Strauss, dopo aver ascoltato una conferenza tenuta da Popper a Chicago, scrive a Voegelin dicendo che non vi era nient'altro che "il più insipido e privo di vita positivismo" e chiese a Voegelin un suo giudizio su La società aperta. Costui rispose che il libro era, a suo avviso, "una sciocchezza impudente e dilettantistica. Ogni singola frase è uno scandalo". E questo fu il suo giudizio sulla persona di Popper: "Popper è un rozzo attaccabrighe ideologico", "un intellettuale fauto", "un volgare mascalzone impertinente".
In seguito, nei lunghi anni della guerra fredda, l'opera politica di Popper venne coperta di insulti.
Oggi, dopo il crollo del mondo comunista, la situazione è mutata, E anche coloro che sino all'ultimo si sono ostinati a non vedere sono oramai costretti a riconoscere la profondità intellettuale e il valore morale di Popper "filosofo della politica". La società aperta è uno dei libri più letti e studiati nei Paesi ex comunisti, l'edizione in lingua russa è stata uno dei più grandi successi editoriali di questi ultimi anni. Il volume Popper in Cina (tradotto pure in italiano nel 1995 dalla Rusconi) testimonia l'ammirata attenzione delle Università cinesi nei confronti sia del Popper epistemologo che del Popper politologo.
Non fa, dunque, meraviglia che, in occasione dei cinquant'anni dalla pubblicazione de La società aperta e i suoi nemici, intellettuali prestigiosi - tra cui Fred Eidlin, Joseph Agassi, John A. Hall,  Ernst Gombrich, David Miller, Mark Notturno, eccetera - abbiano voluto riflettere, in un convegno che ebbe luogo a Praga nel 1995, un anno dopo la morte di Popper, sul destino delle sue idee politiche. E' Gombrich ad aprire il volume con un saggio sui Ricordi personali circa la pubblicazione de 'La società aperta': l'estenuante lavoro di stesura del libro, il manoscritto respinto da parte di  editori americani e inglesi, un Popper sull'orlo della disperazione, una vita di stenti.
Il 29, luglio del 1943, Hennie la moglie di Popper - scrive a Gombrich: " ... Da ottobre fino a marzo, ci siamo nutriti solo di verdura cresciuta nell'orto; non è mai sufficiente, ma cerchiamo di farcela bastare. Lo stipendio di Karl non è mai adeguato e ora lo è ancora meno di prima. In quest'ultimo periodo Karl ha potuto lavorare solo nei fine settimana, ma durante l'estate ha lavorato letteralmente ventiquattr'ore su ventiquattro. Negli ultimi tre o quattro mesi era completamente esaurito; faceva fatica ad andare a letto perché non riusciva a dormire", E, in questa situazione, la consapevolezza di Popper di aver scritto un lavoro davvero importante. Il 16 aprile, sempre del 1946, Popper fa sapere a Gombrich: "Il manoscritto è finito, il titolo Una filosofia sociale per l'uomo comune (è di circa 700 pagine). Credo che il libro sia di grande attualità e che sia urgente la sua pubblicazione .Il libro contiene una nuova filosofia della politica e della storia, e un'analisi dei principi della ricostruzione democratica; cerca, inoltre, di contribuire alla comprensione della rivolta del totalitarismo contro la civiltà, e di dimostrare che tale rivolta è vecchia tanto quanto la società democratica stessa".
Il libro era voluminoso. Forse sarebbe stato più facile trovare un editore se fosse stato ridotto il numero delle pagine. Ma ecco Popper:   "Sono
( ... ) assolutamente contrario ai tagli. Credo che il libro sia abbastanza di valore da essere, a volte, un po' meno breve rispetto a quanto sarebbe potuto risultare. Il libro è scritto con un'attenzione insolita; conosco poche persone così scrupolose e attente a ogni dettaglio come me; con il risultato che (... ) il libro acquista, un raro grado di lucidità e di chiarezza; e tutto questo in un libro che (...) è denso di riflessioni in ogni singola pagina. Rifiuto categoricamente l'affermazione che esista la più piccola ragione intrinseca per eventuali tagli". Hayek si dà molto da fare perché il libro di Popper venga pubblicato. Alla fine è la Routledge che accetta l'offerta facendo uno dei più grossi affari editoriali della sua storia. Fu Hayek dunque che riuscì a fargli pubblicare il libro; fu Hayek che un paio d'anni più tardi lo chiamerà a insegnare alla London School of Economics and Political Science; e fu sempre Hayek che si offrì per scrivere la prefazione a La società aperta. Popper, però, non gradì affatto l'idea e scrive a Gombrich:  "Non c'è bisogno che tu dica che non potrei mai accettare la proposta di Hayek, a nessuna condizione  perché sono troppo orgoglioso da accettare un'offerta del genere (persino dal Presidente Truman, o da John Dewey, o da Shirley Temple),  perché marcherebbe sia me sia il libro".
Quando agli inizi di gennaio del 1946, i coniugi Popper sbarcarono a Londra, Gombrich e signora andarono loro incontro al porto, "e fui contento - rammenta Gombrich - di riuscire a portare a Karl la prima copia de La società aperta e i suoi nemici, che egli esaminò impazientemente sul treno e sull'autobus verso la nostra casa bifamiliare a Brent". E Gombrich si chiede: "Chi di noi avrebbe predetto quel giorno, quanto tutti noi saremmo stati arricchiti, per oltre mezzo secolo, dalla sua mente tanto attiva?". In quel "tutti noi" di Gombrich sono ormai compresi milioni e milioni di uomini e donne che, oppressi, hanno trovato ne La società aperta di Popper una ragione per ribellarsi e che nella libertà, vi trovano progetti e ideali da realizzare.

uniba.it

 

 

SE DIO E' MORTO TUTTO E' RELATIVO

Fallibili dunque pluralisti

nuovo intervento relativo all'articolo di Michael Dummett "Se Dio è morto tutto è relativo" pubblicato il 25 aprile scorso.

Né scettici né dogmatici ma critici: questo è quanto possiamo affermare a proposito della "verità" delle teorie scientifiche. Contro quei positivisti per i quali la scienza sarebbe in grado di conseguire verità assolute, certe e definitive, siamo giustificati a ripetere con Tarski che "noi non conosciamo e abbiamo molte poche possibilità dì scoprire un criterio di verità che ci consenta di dimostrare che nessun enunciato in una teoria è falso". Da qui - seguendo Popper - l'ineludibile compito di tentare dì falsificare ogni teoria, giacché l'errore individuato ed eliminato, è la via che porta a teorie migliori, maggiormente esplicative e previsive. E così che l'idea di verità come principio regolativo guida la ricerca scientifica e permette di scegliere di volta in volta quella teoria (se disponibile) che - sulla base di previsioni riuscite - può venir dichiarata, nel corso di severi controlli, "vera" (fino a prova contraria), la meglio adeguata ai fatti.
Essere consapevoli della smentibilità delle teorie scientifiche, del fatto cioè che esse sono sempre sotto assedio, non significa minimamente essere scettici; né implica quel relativismo per cui, nella risoluzione di un problema, una teoria varrebbe l'altra. Fu Edouard Le Roy ad affermare che non ci è possibile conoscere nulla e che la scienza si risolve in regole d'azione. Ora, però - faceva presente Henri Poincaré - le regole di un gioco (quelle del tric-trac, per esempio) sono convenzioni arbitrarie. Nella scienza, la situazione è ben diversa: "la scienza è una regola d'azione che riesce, almeno in linea generale; mentre, aggiungo, la regola contraria non sarebbe riuscita. Se dico: per produrre idrogeno fate agire un acido sullo zinco, io formulo una regola d'azione che riesce; avrei potuto dire: fate agire dell'acqua distillata sull'oro; e anche questa sarebbe stata una regola, soltanto che non sarebbe riuscita". Ecco, allora, che il valore delle regole d'azione della scienza consiste nel fatto che noi sappiamo che esse riescono. "Ma sapere questo - conclude Poincaré - vuole dire sapere qualcosa, e allora perché venite a dirci che non possiamo conoscere nulla? La scienza prevede e proprio perché prevede può essere utile e servire da regola d'azione".
Esistono spiegazioni e previsioni scientifiche. Ed esistono valutazioni etiche. Non esistono spiegazioni e previsioni etiche. E se c'è un'unica scienza (perché unico, tra l'altro, è il metodo), dobbiamo però confrontarci con un pluralismo etico. Il disaccordo tra ipotesi scientifiche si dirime tramite il ricorso alla "verità" (o "falsità") delle loro conseguenze, mentre l'accordo (o il disaccordo) di queste coi "fatti". Ma un simile esito non è possibile in etica, giacché il disaccordo sui principi non può venir eliminato, in, linea generale, tramite il ricorso alle conseguenze, giacché è proprio su queste che ritorna il disaccordo. Possiamo dire che il nazismo è male perché porta alla guerra; ma qualcuno verrà a dirci che vuole il nazismo proprio perché egli ama la guerra. Il pluralismo etico è un dato di fatto perché di principio ineliminabile. "Singolare giustizia che ha come confine un fiume!" esclamava Pascal, che aggiungeva: "Il furto, l'incesto, l'uccisione dei figli, dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose". Il mondo dei valori è e resta, per dirla con Weber, un mondo politeista.
Le norme etiche sono proposte (di "ideali", di comportamenti "corretti", di leggi "giuste", di istituzioni "valide") e non proposizioni indicative. La scienza non produce (logicamente) etica. L'etica non è scienza. La scienza sa, l'etica valuta. E se l'etica non è scienza, cosa potrà mai fare la ragione nell'etica? La ragione nell'etica può fare molto. Può, per esempio fissare i mezzi per raggiungere determinati fini; può dirci che certi fini sono irrealizzabili all'epoca o di principio; può farci vedere che la realizzazione di un valore può condurre al calpestamento di un altro fine accertato anch'esso per buono; può eliminare quei disaccordi di atteggiamento che dipendono da disaccordi di credenze; può condurre all'analisi del maggior numero dì alternative nella soluzione dì un problema etico; può renderci più responsabili mettendoci sotto gli occhi le conseguenze delle nostre scelte. E così via. Ma la cosa di maggior rilievo che la ragione può fare nel campo dell'etica sta nel farci vedere che l'etica non è scienza e che, sebbene analogamente alla scienza non abbia un fondamento ultimo, diversamente dalla scienza non c'è un criterio (logico o empirico) per scegliere tra teorie etiche divergenti. La scelta di questo o quel principio etico è una scelta di coscienza; dipende, in ultima analisi, dal coraggio o dalla vigliaccheria di coscienze più o meno illuminate, più o meno responsabili, più o meno consapevoli.
L'etica - scriveva Uberto Scarpelli - è senza verità: essa, infatti, descrive e non prescrive. E troveremo il dissenso anche nei confronti dei principi etici più "evidenti", più diffusi, universalmente diffusi come è il principio che è male uccidere degli innocenti. C'è chi ha ucciso proprio gli innocenti per dimostrare il suo potere illimitato. E' Sidney Hook che in Out of Step narra di una conversazione avuta in casa sua con Bertolt Brecht circa le fucilazioni avvenute nel periodo dei processi moscoviti. "Fu a quel punto - scrive - che Brecht pronunciò una frase che non ho mai più dimenticato, Egli disse: Quelli là, più sono innocenti più meritano di essere fucilati".
Il 17 maggio 1952 Hans Kelsen, tenne la sua ultima lezione a Berkeley. In quell'occasione confessò apertamente di non aver risposto, nella sua vita di studioso, alla cruciale domanda su cosa sia la giustizia-. "La mia unica scusa è che, a questo riguardo, sono in ottima compagnia: sarebbe stato più che presuntuoso far credere (...) che io sarei potuto riuscire là dove erano falliti i pensatori più illustri. Di conseguenza, non so, né posso dire che cosa è la giustizia; questa giustizia assoluta dì cui l'umanità va in cerca. Devo accontentarmi di una giustizia relativa e posso soltanto dire che cosa è per me la giustizia. Poiché la scienza è la mia professione, e quindi la cosa più importante della mia vita, la giustizia è per me quell'ordinamento sociale sotto la cui protezione può prosperare la ricerca della verità. La mia giustizia, dunque, è la giustizia detta libertà, la giustizia della democrazie in breve, la giustizia della tolleranza".
La pluralità delle ipotesi avanzate per la soluzione dei problemi va sottoposta alla dura selezione dei controlli empirici più severi. Il pluralismo delle scelte etiche va immerso all'interno delle regole della società aperta, la quale è chiusa soltanto agli intolleranti. Ma, intanto, non ci vuol molto a capire che la consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana e il pluralismo dei valori costituiscono, da una parte, i due cardini teorici della democrazia politica; e, dall'altra, sì configurano come i tratti di fondo di una riscoperta contingenza umana che, se non fonda la fede, apre però lo spazio alle scelte di fede. Per tutto ciò non si finirà mai dì essere grati a chi ci ha aiutato "a comprendere che la consolazione offerta dalle varie forme del "mito della certezza" è una mera illusione": una illusione spesso carica di crudeltà.

dolanf.monrif.net

 

 

1948. Il 18 aprile delle libertà
E LE VECCHIETTE SCONFISSERO GLI INTELLETTUALI

Il 1947 è stato un anno cupo, amaro. Il Paese è tutto un bacino di crisi. Quello alla guerra è un lento addio. L’Italia ne è uscita da due anni ma ne porta ancora i lividi addosso. La guerra ha ferito uomini e cose e la sua scia non si consuma ancora. Il suo ricordo è una presenza fisica, un incubo difficile da dimenticare. Sei milioni di vani abbattuti - dicono le statistiche, crude come solo i numeri sanno essere -, settemila ponti a PEZZI , un quarto della rete ferroviaria distrutta, le macerie, le case diroccate, gente che è morta lontano, gente che è morta in casa sotto le bombe, gente ammazzata dalla guerra civile, gente straziata, torturata, ferita dalla guerra. Ferita fuori o dentro, che è ancora peggio. E la povertà è dilagante.

Il Paese è stretto nella morsa di un’economia di sussistenza. Nelle liste dei comuni si trovano iscritti 3.700.000 poveri. La disoccupazione raggiunge il 20 per cento della forza lavoro. I braccianti, al Centro e al Sud, lavorano da mane a sera per 200 lire al giorno. Esistono, inoltre, squilibri impressionanti: 6,5 milioni di piccoli proprietari posseggono appena 10 milioni di ettari di terreno, mentre 8mila grandi proprietari sono padroni di 4 milioni di ettari di terreno. Circa 6 milioni di persone che lavorano la terra vivono da indigenti. E, intanto, privi della speranza di trovare un lavoro, moltissimi giovani, soprattutto dal Veneto, dall’Umbria, dalle Marche e da tutto il Sud emigrano prendendo la via preferenziale verso la Francia, la Germania, il Belgio. Nelle miniere del Belgio lavorano 40mila italiani.

In una situazione del genere, il Pci - guidato da Togliatti e con uomini come Luigi Longo, Pietro Secchia e Giuseppe Di Vittorio - il 28 dicembre del 1947 crea, insieme ai socialisti di Pietro Nenni, il Fronte popolare: una gigantesca massa d’urto che, tramite scioperi a ripetizione, manifestazioni e scontri di piazza, avrebbe dovuto infrangere la diga democristiana di De Gasperi, vincere le elezioni e così conquistare il potere democraticamente e non "sulla punta delle baionette".

Il 9 febbraio del 1948 vengono indette le elezioni per il giorno 18 aprile. Il Fronte popolare ottiene nel frattempo - il 15 marzo - una schiacciante vittoria nelle elezioni comunali di Pescara, dove i "rossi" conquistano un numero doppio di seggi di quelli presi dai "bianchi". La situazione pare davvero precipitare a favore del Fronte. Presentatosi ufficialmente il 1 febbraio 1948, il 20 dello stesso mese il Fronte lancia l’Alleanza per la difesa della cultura, alla quale aderiscono frotte di intellettuali. Attori, poeti, professori non si sentirebbero intellettuali se non si schierassero a sinistra: solo a sinistra c’è la verità; solo a sinistra si può trovare la via del riscatto. E questa connivenza - fatta di presunzione e, non di rado, di opportunismo - tra intellettuali e sinistra politica è durata ufficialmente sino al 1989, anno della caduta del muro di Berlino; di fatto, è fiorente ancor oggi. Tra tanti altri si schierano con il Fronte: Sem Benelli, Salvatore Quasimodo, Vittorio De Sica, Elio Vittorini, Corrado Alvaro, Cesare Zavattini, Silvio D’Amico, Anna Magnani, Umberto Saba, Luchino Visconti, Giuseppe Marotta, eccetera. E non furono pochi gli intellettuali che si misero a sventolare le bandiere del materialismo storico-dialettico, mentre qualche anno prima avevano entusiasticamente giurato sull’eterna verità della dottrina fascista.

L’appoggio degli intellettuali al Fronte popolare fu massiccio (un appoggio, peraltro, in seguito ben ricambiato!). La campagna elettorale si svolse in un clima di grande tensione, di autentica guerra fredda. I risultati definitivi delle elezioni dettero quasi 13 milioni di voti alla Dc, e cioè il 48,5 per cento dei suffragi, mentre al Fronte andò il 31,6 per cento. Attilio Piccioni, allora numero due della Dc, commentò il risultato delle elezioni con una frase che doveva in seguito rimanere famosa: "Credevo che piovesse, non che grandinasse".

Dove sono da trovare le cause della sconfitta del Fronte popolare alle elezioni del 18 aprile 1948? Perché il Pci, con più di 2 milioni di iscritti e 36mila cellule, non ottenne il consenso sperato e all’apparenza a portata di mano? Giancarlo Pajetta aveva parlato di "un movimento di massa tanto esteso che anche le vecchiette settantenni avrebbero gettato i loro pitali sulla testa di De Gasperi". Ebbene, come mai questo movimento di massa venne sconfitto, e tanto pesantemente, da un movimento di massa più grande e più travolgente e che pensò bene di porre il destino del Paese nelle mani di Alcide De Gasperi?

Certamente, una delle cause della sconfitta del Fronte popolare è da ravvisare nella levatura politica e morale di uomini come De Gasperi ed Einaudi. Un’altra non indifferente causa della vittoria del centro fu, fuor d’ogni dubbio, il coraggio di Saragat, il quale si staccò da un partito socialista ormai succube del Pci, e costituì quello che poi si chiamerà Psdi. Notevole peso sulla vittoria di De Gasperi alle elezioni del ’48 lo ebbe di certo il piano Marshall. Presentato il 5 giugno 1947, il piano Marshall cominciò a funzionare nel 1948 per concludersi nel 1952. All’Italia, in denaro e aiuti alimentari, toccarono 1.515 milioni di dollari, e cioè 684 miliardi di lire di allora. E c’è, inoltre, da considerare che dal settembre 1943 all’aprile 1948 l’Italia ricevette dall’America sovvenzioni a fondo perduto per un valore di 1.419 milioni di dollari.

Le ragioni della sconfitta del Fronte popolare non si riducono, tuttavia, a quelle ora esposte. Né penso si possa asserire - come di recente è stato fatto - che il rifiuto del piano Marshall da parte del Pci fornisca "il nodo centrale di riferimento per capire la storia della sorprendente sconfitta elettorale" del Pci. Tale rifiuto fu uno e non il nodo centrale di riferimento per la comprensione della sconfitta del Pci.

In ogni caso, c’è ben altro da prendere in considerazione. Pietro Nenni, qualche giorno dopo il 18 aprile, annota nel suo Diario: "Abbiamo sottovalutato tre fattori: la Chiesa, l’America e Saragat". Già, la Chiesa! La Dc, infatti, per la campagna elettorale del 1948 potè contare su 300mila volontari inquadrati nei Comitati civici di Luigi Gedda, Comitati che costituirono una capillare e onnipresente macchina elettorale cattolica. Un appoggio di rilievo la Dc lo ebbe dal gesuita padre Riccardo Lombardi, detto "il microfono di Dio", grande trascinatore di folle. Le parole di Pio XII furono alla base della mobilitazione dei 600mila iscritti all’Azione cattolica, oltre che degli aderenti ad associazioni importanti come la Giac, le Acli e, soprattutto, la Coldiretti.

Qua giunti, tuttavia, non dobbiamo dimenticare i parroci. Allora ce n’erano 22mila, presenti e influenti in tutti i paesi - grandi e piccoli -, anche nei più sperduti. E furono proprio i parroci, quotidianamente a contatto con le gioie e le sofferenze della gente, a convincere tante persone - e tra costoro anche tante vecchiette, magari analfabete - a votare per la Dc.

Fu così che gli "oscurantisti" - affidatisi alla tradizione più alta della Chiesa cattolica - contribuirono a salvare la democrazia e la civiltà del nostro Paese; e ciò mentre presuntuosi intellettuali di sinistra predicavano la via della caverna e, ciechi di fronte ai crimini di stampo leninista-stalinista, iniziavano la loro triste marcia dentro il comunismo.

Dario Antiseri     ideazione.com

 

 


l'uomo nuovo non è nel Dna

Due contrapposti atteggiamenti appaiono oggi dominanti nei confronti della scienza e della tecnica: da una parte vi è un diffuso rifiuto della tecnica, dall'altra le applicazioni tecnologiche alimentano sempre di più attese ultrautopiche.
Sulla scia del pensiero di Heidegger si sostiene che la tecnica non sarebbe affatto uno strumento neutrale nelle mani dell'uomo, né un evento accidentale dell'Occidente: essa, piuttosto, costituirebbe l'esito scontato di quello sviluppo per cui l'uomo, obliando l'Essere, si è lasciato travolgere dalla "volontà dì potenza", rendendo la realtà e se stesso un puro oggetto da dominare e sfruttare. Il mondo occidentale è un mondo costruito sulla manipolazione delle cose, e dunque sull'idea che le cose sono trasformabili, prive di una propria consistenza, ridotte a niente. E siffatta riduzione delle cose a niente riduce l'uomo stesso a cosa manipolabile - oggetto nelle mani di chi ha o avrà "potere". E all'origine del male endemico della civiltà occidentale ci sarebbe uno stregone tutt'altro che apprendista: Platone.
Certo, le denunce di quanti osteggiano la tecnica sono spesso sacrosante, i loro allarmi non di rado giustificati e preziosa è la loro sensibilità a valori come il rispetto per l'ambiente e per gli animali, e per la salute.E tuttavia non si può fare a meno di chiedere loro se la funzione della Terra sia quella di essere un museo biologico o di tenere in vita più dì sei miliardi di persone, o anche se dobbiamo convertirci tutti all'ortodossia jainista o tornare addirittura nella caverna. Ma anche lì, attenzione, c'era la clava! L'utopia di una natura sacra, benigna e inviolabile potrà anche sedurre, ma è falsa e impraticabile. Falsa perché, per certi aspetti, non si può dar torto a Musil quando scriveva che la natura "è terrosa, angolosa, velenosa e inumana dappertutto dove l'uomo non le impone il suo giogo". Impraticabile perché noi non possiamo far altro che riparare la nave in mare aperto: gli eventuali danni delle realizzazioni tecnologiche potranno essere riparati solo da altri interventi tecnologici. Le possibilità tecnologiche aumentano le responsabilità degli esseri umani e non è vero che le annullino. Ed è semplicemente follia negare gli immensi benefici morali, materiali e sociali arrecati all'umanità dagli sviluppi della tecnica. "Se la schiavitù è stata sostanzialmente abolita, questo lo dobbiamo alle conseguenze pratiche della scienza" (A. Einstein). E le femministe dovrebbero essere d'accordo con Karl Popper sul fatto che per l'emancipazione della donna ha contribuito molto di più la lavatrice che "la pressione ideologica".
Sull'altra sponda gli sviluppi della ricerca scientifica e delle implicazioni tecnologiche inducono non pochi ad abbracciare un'utopia opposta alla precedente e a coltivare l'illusione di natura proto-positivistica stando alla quale "la scienza, e la scienza sola, può rendere all'urnanità ciò senza di cui essa non può vivere, un simbolo e una legge". E' quanto sta accadendo in questi giorni a proposito della mappatura del genoma umano, nonostante le accorte e caute dichiarazioni di seri ricercatori. Siamo indubbiamente di fronte a un significativo balzo in avanti della ricerca scientifica. Ma tra questo rilevante esito della ricerca e proclamare che abbiamo scoperto il linguaggio di Dio, che ormai siamo padroni della vita, che siamo come Dio e che l'immortalità non è più un traguardo irraggiungibile ce ne corre. Il non sequitur pare essere un errore logico non facilmente evitabile. E un errore ancor più comune è il costruttivismo.
"Costruttivismo" è un termine proposto da Friedrích A. von Hayek per designare una diffusa e difesa - e deleteria - teoria che ha infestato le scienze sociali sin dal loro nascere. Il costruttivismo consiste nell'idea per cui "l'uomo, dato che ha creato egli stesso le istituzioni della società e della civiltà, deve anche poterle alterare a suo piacimento in modo che soddisfino i suoi desideri e le sue aspirazioni". Tutte le istituzioni e tutti gli eventi storico-sociali non sono frutto né dell'azione di Dio né della cieca natura; nella loro genesi e nei loro mutamenti sono esiti di piani intenzionali, progettati, voluti e realizzati. Sembra, questa, un'idea ovvia. Ma le cose non stanno affatto così, giacché le più importanti istituzioni umane - il linguaggio, la moneta, il diritto, lo Stato, migliaia e migliaia di città, e tantissimi altri istituti della vita sociale - sono esiti spontanei di azioni volte ad altri scopi. Le azioni umane intenzionali comportano conseguenze inintenzionali, come bene sanno - tra gli altri - i medici e i farmacologi allorché puntano l'attenzione su quelli che loro chiamano "effetti collaterali". E quand'anche un progetto riesca, esso non sempre riesce così come lo si era immaginato. Ragioni logiche ed epistemologiche rendono ben conto della ineluttabile emergenza delle conseguenze inintenzionali delle aziom umane intenzionali. E se le cose stanno cosi, allora è chiaro che cartesiani, illuministi e positivisti, dice Hayek, sono stati tutti costruttivisti: non hanno usato la ragione, ne hanno abusato. Il costruttivismo, a suo avviso, è una malattia che ha infestato nazismo e comunismo, oltre che vasti settori della psichiatria e della psicologia. E che, come pare, seguita a produrre rinnovate esplosioni di scientismo acritico. Conosciamo tutti gli esiti aberranti e disumani di quelle ideologie che hanno, sbandierato l"'ideale" della costruzione del "Superuomo" o dell'"Uomo Nuovo". Ne abbiamo abbastanza. Una speranza motivata è, invece, che la mappatura del genoma possa portare, in tempi magari brevi e nella consapevolezza che "l'uomo non è e non sarà mai padrone del proprio futuro" (Hayek), a estirpare le malattie e ad alleviare le sofferenze di quell'uomo che esiste già.

uniba.it

 

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Vivere è imparare

La scienza si evolve in maniera darwiniana

attraverso tentativi ed errori

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che cos'è la libertà

Puntata registrata con gli studenti del Liceo "Cartesio" di Giugliano  2002

STUDENTE: Ringraziamo il nostro ospite Prof. Dario Antiseri di essere con noi ed introduciamo l’argomento con una scheda filmata.

Gli uomini e le donne del Ventesimo secolo hanno conosciuto una libertà che è parsa talvolta inebriante, apparentemente illimitata, la libertà di affermare i propri diritti, le proprie opinioni, la libertà di muoversi, la libertà di vivere e di amare. Ci sono stati passaggi, nella lunga storia del secolo, in cui il sentimento della libertà, prima di diventare azione e invadere le strade, si è fatto sogno. Ma gli uomini e le donne del Ventesimo secolo hanno anche conosciuto la negazione della libertà e l'oppressione dei corpi. Hanno attraversato il buco nero dei totalitarismi sperimentando l'annientamento nei campi di internamento e di sterminio, la vita degradata delle carceri e dei gulag. Forse in nessun altro momento della storia passata la libertà è stata tanto affermata e tanto negata, tanto reclamata e tanto rifiutata, tanto parlata, cantata, gridata e tanto messa ai margini, nascosta, oscurata. Ora che il secolo Ventesimo, nel suo indissolubile intreccio di libertà e oppressione ci è alle spalle, resta da chiedersi se il cammino della libertà, il suo accidentato e tortuoso itinerario attraverso la storia degli uomini sia finalmente arrivato a compimento oppure, come è più legittimo pensare, la libertà non ha un termine conclusivo. La sua storia dunque non è finita. Essa è costantemente in cammino.

STUDENTESSA: Professore, qual è il percorso storico della libertà e della sua negazione nell'arco del Ventesimo secolo?

ANTISERI: Nel nostro secolo, è vero, la libertà è stata tanto reclamata, osannata e altrettanto oppressa, negata, ma quello che è stato veramente terribile è rappresentato dai campi di concentramento, che hanno voluto distruggere l'umanità. Quello della libertà è stato un cammino accidentato, faticoso e per questa libertà sono morti milioni di uomini, dunque è nostro compito difenderla. Un grande filosofo, che è Karl Popper, sosteneva che il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza.

STUDENTESSA: In cosa si differenzia la nostra idea di libertà rispetto a quelle precedenti?

ANTISERI: Le rispondo con una citazione di Benjamin Constant tratta dal suo libro La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni: "Per un inglese, un francese, un cittadino degli Stati Uniti d'America la libertà, oggi, è il diritto di essere sottoposti soltanto alla legge"."… il diritto di non essere arrestati, detenuti, condannati a morte, maltrattati in alcuna maniera, per effetto della volontà arbitraria di uno o di più individui. La libertà è il diritto di esprimere il proprio pensiero, scegliere la propria occupazione ed esercitarla, il diritto di esporre le proprie idee, di abusarne addirittura. Il diritto di andare e venire senza bisogno di ottenere il permesso e senza il dover rendere conto dei propri motivi e dei propri affari. E poi ciascuno ha il diritto di riunirsi con altri individui sia per discutere riguardo ai propri interessi sia per professare il culto dei costumi, sia semplicemente per occupare il proprio tempo nella maniera più conforme alle personali inclinazioni e fantasie. Infine è il diritto che ciascuno ha di influire sull’amministrazione del governo, sia nominando per intero o in parte i propri funzionari. Ecco, lo Stato di diritto è lo Stato della legge. La libertà degli antichi era quella di andare sulla piazza e decidere tutti insieme una guerra, una legge, ma essi - dice Constant - non avevano la libertà individuale, ovvero ispirata ai valori della persona, quanto piuttosto la libertà in specie collettiva. Tuttavia quando Pericle in un suo discorso diceva "Atene non caccia lo straniero, Atene è aperta al mondo" questa sua sensibilità circa l’importanza della libertà degli individui e il rispetto degli altri, impressiona, tanto è vicina ai giorni nostri.

STUDENTE: Si può parlare di educazione alla libertà?

ANTISERI: Karl Popper, nel ’35 ha scritto un libro classico di epistemologia dal titolo Logica della ricerca. Dieci anni più tardi, nel '45, ha pubblicato il famosissimo libro La società aperta e i suoi nemici, dove esamina le ragioni della libertà. Giunse alla conclusione che una delle ragioni è la fallibilità umana. E sempre Popper dice - "Evitare l'errore è un ideale meschino. Se noi ci confrontiamo con un problema difficile è facile che sbaglieremo". Allora la cosa veramente grande è apprendere dai nostri errori. Io sono fallibile, tu sei fallibile. Se vogliamo risolvere il problema, ciascuno proponga la propria teoria e critichi quella dell’altro, perché attraverso la discussione e la critica noi possiamo risolvere i problemi. Dunque, l'idea che siamo fallibili e che per questo dobbiamo discutere, è un cardine della società aperta, della democrazia. Per converso se io penso di avere la verità assoluta, come Hitler, Stalin e tutti i dittatori, allora cercherò di imporla. Quindi l'educazione alla democrazia è capire le ragioni logiche, epistemologiche ed economiche della libertà, oltre ovviamente a quelle religiose o cristiane.

STUDENTE: Professore, in che rapporto stanno attualmente scuola e libertà?

ANTISERI: Se interpreto bene la domanda, mi si chiede un’opinione circa il finanziamento o meno alle scuole private. Ebbene io sono favorevole. Quando noi parliamo di competizione spesso abbiamo paura di questa parola, perché la competizione è guerra; tuttavia il progresso scientifico si ha perché la ricerca scientifica è una competizione serrata tra idee. Pensate alla battaglia tra copernicani e tolemaici, tra arbitralisti e meccanicisti in biologia. La scienza va avanti attraverso teorie e confutazioni, va avanti tra proposte di teorie e critiche a queste teorie. Non è razionale colui che difende la sua teoria ad ogni costo. Che cos'è la democrazia, se non una competizione tra proposte politiche per la soluzione dei problemi come il sistema elettorale, la scuola, la sanità, il traffico, e così via? Che cos'è la democrazia se non una competizione davanti a direttori, tra proposte diverse? E il libero mercato che cos'è se non competizione di merci e servizi sul mercato?. Quindi è la competizione ad animare la scienza, la democrazia e il mercato e chi non vuole la competizione ha scelto di bloccare il mutamento. Del resto la parola cumpetere vuol dire cercare insieme, petere, cercare insieme, cum, cercare insieme la soluzione migliore in modo agonistico.

STUDENTE: Professor Antiseri, possono le nuove tecnologie costituire un pericolo per la libertà?

ANTISERI: Un grande filosofo contemporaneo, Gadamer, ha sostenuto che con la televisione termina l'esperienza del dialogo; lo stesso Piaget ci ha insegnato che le menti crescono attraverso una discussione continua. Ora il dialogo, spesso in famiglia, non c'è, mentre è la televisione a padroneggiare, mostrando talvolta scene di violenza che vengono assorbite dai bambini a tal punto da far sembrare cosa di tutti i giorni il sangue, le pistolettate e gli scannamenti. Popper diceva che "quando noi abituiamo le menti dei bambini alle scene di violenza, si contribuisce all’indebolimento della democrazia, perché garantire la democrazia, è compito dello Stato che deve vigilare al fine di eliminare la violenza". L’assuefazione alla violenza dunque può costituire un pericolo per la libertà e, come dicevo prima, il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza. Ma ci sono altri pericoli. Per esempio i monopoli pubblici e privati, perché, come ha insegnato un grande economista, Premio Nobel, Friedrich Von Hayek "chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini". Prendiamo ad esempio la libertà di stampa. Essa non è garantita se tutte le cartiere, tutte le tipografie appartengono ad solo un gruppo di potere; ecco perché è necessaria la proprietà diffusa affinché sia consentito alla gente di informarsi, di proporre e di criticare. La libertà dunque è minacciata dai monopoli e dall’informazione perché distruggono le basi teoriche della democrazia.

STUDENTESSA: la libertà della ricerca scientifica può essere assoluta o deve essere controllata e limitata?

ANTISERI: Il problema della libertà della ricerca scientifica sta nelle applicazioni; essa deve essere certamente libera, cioè trovare più possibilità, inventare più teorie, in chimica, in fisica, in biologia, sociologia. Nella pratica tale libertà e' limitata. Per esempio l’energia atomica è stata una grande scoperta scientifica, ma ciò non vuol dire che si sia legittimati a buttare la bomba atomica ogni giorno per verificarne gli effetti. Dunque l'uso delle scoperte scientifiche comporta sempre delle implicazioni etiche e politiche. Si tratta di limiti che dobbiamo stabilire di volta in volta.

STUDENTE: In riferimento al libro di George odifreddi, orwell, 1984, Lei ritiene che viviamo in una società del controllo?

ANTISERI: Il problema non è "chi controlla". Secondo Popper è stato Platone ad inquinare l'intera teoria politica dell'Occidente con il concetto della leadership. Egli infatti sosteneva che a comandare dovessero essere i filosofi, "…perché solo loro sanno cos'è il bene e cos'è il male". La domanda di Platone ha ricevuto tutte altre risposte negli anni a seguire, con conseguenti implicazioni politiche; quando si è deciso che doveva comandare solo una razza, abbiamo avuto il nazifascismo; quando la scelta si rivolse ad una classe sociale, il proletariato, allora si ebbe il comunismo. Dunque chi deve comandare? Un singolo, un ceto, una classe, una razza? La risposta è :"nessuno", perché nessuno è venuto al mondo con l'attributo del potere sugli altri; piuttosto la domanda è: "come costruiamo istituzioni che permettano il controllo dei governati sui governanti in modo che questi ultimi possano essere rimossi, cacciati senza spargimento di sangue qualora non rappresentino il popolo che li ha eletti? Questa è la domanda dei democratici. Non ci interessa chi comanda. Ci interessa molto di più vigilare sulle istituzioni che garantiscano la sovranità del popolo e dunque la democrazia.

STUDENTE: Facendo riferimento alla condizione delle donne afgane, ci accorgiamo di vivere in un mondo che concede larghi spazi alla libertà, ma allo stesso tempo li nega. Come riescono a coesistere queste due cose apparentemente contraddittorie?

ANTISERI: Apparentemente sono contraddittorie. Noi viviamo in un mondo pluralista, dove ci sono più fedi religiose, più tipi di etica, più proposte politiche e più situazioni diverse. Ebbene questo relativismo di culture e di proposte ci fa entrare in contatto con realtà diverse. Tutto ciò è necessario per capire chi siamo, quali sono i tratti che ci distinguono dalle altre culture e per entrare in contatto con queste attraverso il dialogo, cosicché noi possiamo imparare da altri e altri possano imparare da noi. Questo contatto, per esempio, tra il mondo musulmano e il mondo nostro, potrebbe indurre i musulmani a riflettere sulla condizione della donna e le donne, a loro volta, guarderebbero al modo di vita di quelle occidentali. Dai buddisti potremmo apprendere, tra le altre cose, il valore del rispetto per l'ambiente. È questa la cosa importante: un dialogo fecondo. Popper, alla domanda "Ma che cos'è questa Europa?", rispose :" L'Europa è quel continente che fin dall'inizio ha permesso più culture, più idee". Noi non abbiamo avuto una sola religione e spesso la nostra religione si è divisa causando le guerre di religione. Non abbiamo avuto un solo sistema politico, così come non abbiamo avuto un tipo di arte soltanto. Cioè l'Europa è quel continente che, in qualche modo, ha permesso la coesistenza, spesso tragica, dolorosa, di più idee. E questo distingue l'Europa da altre culture monolitiche. Alcuni anni fa tenni un dibattito a Praga dove un ex ministro della Cecoslovacchia mi disse:"Voi in Europa avete tutti questa diversità di idee, più religioni, più fedi politiche, più partiti….è questa la vostra debolezza!". E io risposi: "No, questa è la nostra forza, perché vuol dire che ce lo possiamo permettere; tra più fedi uno può scegliere la sua, tra i partiti politici uno può scegliere questo partito invece che un altro e possiamo discuterne". Perché badate bene che, senza discussione non si avanza né nelle idee, né in politica, né in economia. Chi non vuole la discussione e chi non si mette in discussione ha scelto la via del totalitarismo che rappresenta la negazione della libertà.

STUDENTE: Il potere nelle mani di pochi, potrebbe rovinare o deformare la democrazia e quindi negare l'esercizio della libertà?

ANTISERI: Ma certo, perché la democrazia, come ci ha insegnato Montesquieu, si basa sulla divisione dei poteri. Lo Stato di diritto si basa proprio sulla diffusione del potere economico, politico e amministrativo.

STUDENTESSA: Si faceva prima cenno ai pericoli che corre la libertà. Uno di questi è rappresentato dal potere finanziario?

ANTISERI: Certo. Prima ho accennato al problema dei monopoli e non posso non citare nuovamente quel pensiero di Hayek: "Chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini". Se solo io posseggo i mezzi, sono io che decido cosa produrre e cosa no, dunque sono io che presumo quali siano i tuoi bisogni. Si tratta, secondo la Heller, di una dittatura sui bisogni della collettività.

STUDENTE: Professore, c'è stato un momento, nella storia recente, in cui la nostra libertà è stata in pericolo?

ANTISERI: La nostra libertà è stata calpestata durante tutto il periodo del ventennio fascista, ma, dopo, pericoli per la nostra libertà non mi sembra ce ne siano stati. Tutti oggi accettano lo Stato di diritto in Italia e nessuno mette in discussione le regole della democrazia. Indubbiamente i pericoli possono venir sempre fuori, causati per esempio dallo stress, dall'insoddisfazione, dall'ingiustizia, ma, come diceva Popper: "Le istituzioni sono come le fortezze: resistono se è buona la guarnigione". Ebbene la guarnigione siamo noi che dobbiamo vigilare affinché niente e nessuno offuschi la nostra libertà. La storia insegna, ma ancora prima della storia è la Scuola che deve insegnarci la storia, ossia a comprendere che cosa è avvenuto in passato e a non commettere gli stessi errori

STUDENTE: Secondo lei, nell'immediato futuro è possibile che nascano nuovi totalitarismi che sopprimano le libertà fondamentali di cui oggi godiamo?

ANTISERI: Come diceva un vecchio filosofo dell’Ottocento: "Nel possibile, tutto è possibile". Tuttavia, anche se l’Occidente non è il Paradiso, con le sue contraddizioni, come per esempio la distribuzione diseguale della ricchezza, la tutela dell’ambiente, la convivenza tra culture diverse, un regime totalitario cancellerebbe per sempre la libertà per instaurare l’oppressione diffusa e indiscriminata. Ma io credo che una cosa del genere in Occidente non accadrà.

emsf.rai.it

 

 

La battaglia per una scuola libera  di Dario Antiseri

A quanti, anche in queste ultime settimane, si sono scagliati contro la proposta del buono scuola va fatto presente che l’introduzione di effettive linee di competizione all’interno del nostro sistema scolastico è insieme garanzia di libertà e di efficienza. Ed ecco come Friedrich A. von Hayek – forse il più grande teorico del liberalismo del nostro secolo e Premio Nobel per l’economia (1974) – precisa la sua idea di buono scuola: "Si potrebbe benissimo provvedere alle spese per l’istruzione generale, attingendo alla borsa pubblica, senza che debba essere lo Stato a mantenere le scuole, dando ai genitori dei buoni che coprano le spese di istruzione di ciascun ragazzo buoni da consegnare alla scuola da loro scelta". Hayek afferma ancora: "Si potrebbe anche auspicare che lo Stato provveda direttamente alle scuole in alcune comunità isolate dove perché possano esistere scuole private, il numero dei ragazzi è troppo basso (e il costo medio dell’istruzione pertanto troppo elevato)". Ma nei confronti della stragrande maggioranza della popolazione, sarebbe senza dubbio possibile lasciare l'intera organizzazione e amministrazione dell'istruzione agli sforzi privati, mentre da parte sua lo Stato dovrebbe semplicemente provvedere al finanziamento di base e a garantire uno standard minimo per tutte le scuole in cui' potrebbero essere spesi i suddetti buoni. Un altro dei grandi vantaggi di questo piano sarebbe che i genitori non si troverebbero più davanti all'alternativa o di dover accettare qualsiasi tipo di istruzione fornita dallo Stato o di pagare di tasca propria il prezzo di un'istruzione un po' più cara; e se scegliessero una scuola diversa da quelle comuni, dovrebbero pagare solo un costo addizionale".

Il buono scuola è sicuramente la migliore terapia per i gravi mali della scuola italiana, intossicata dallo statalismo, e quindi di burocratismo e di inefficienza. Qualsiasi riforma scolastica, anche la più accorta, è destinata a sprofondare nel pantano di una bassa qualità e degli sprechi, qualora non venga immersa in un sistema di competizione, in grado di migliorare simultaneamente le scuole statali e quelle non statali. La verità è che sono gli statalisti a danneggiare ogni giorno di più il sistema scolastico italiano. E a tutti i cosiddetti "solidaristi" contrari al buono scuola va ripetuto che il buono scuola rappresenta una carta di liberazione per i poveri.

Di tutto ciò era ben consapevole don Luigi Sturzo. Nel luglio del 1947 Sturzo pubblica un articolo su La Libertà della scuola, dove con acume e preveggenza impressionanti, egli punta il dito su di una piaga che da quei giorni non si è più rimarginata. Leggiamo: "L'eredità fascista nel campo della scuola è stata disastrosa come in campo militare e politico. Il monopolio statale fu completo, la scuola privata credette giovarsi delle concessioni e dei favori che pagò con la perdita di ogni libertà didattica e funzionale". Dunque: per salvare la scuola è necessario, urgente, cambiare rotta: sennonché - egli annota - "il disorientamento persiste, e le linee sostanziali tracciate dagli articoli 27 e 29 della Costituzione (che poi diventarono gli articoli 33 e 34 del testo costituzionale), invece di fissare una chiara direttiva accettabile, con il loro pesante impaccio legislativo ne aggravarono la crisi".

Un giorno un amico di Sturzo, colpito dalle aspre critiche di costui nei confronti della scuola monopolizzata dallo Stato, chiese quali fossero le sue proposte per riformarla. E la sua risposta fu "di aprire le finestre e fare entrare una buona corrente d'aria di libertà, altrimenti vi si morirà asfissiati". Certo, Sturzo ben conosceva le radici e le ragioni della scuola di Stato in Italia. Egli non intendeva minimamente proporne l'abolizione. Voleva soltanto che il sistema scolastico venisse riformato "senza improvvisazione e con sani criteri didattici e sociali". Ma il punto principale era, a suo avviso, "quello dell'orientamento dell'opinione pubblica verso la libertà scolastica e contro il monopolio di Stato". Tutto ciò nella convinzione che "finché la scuola in Italia non sarà libera, neppure gli Italiani saranno liberi".

Sull'Illustrazione italiana del 12 febbraio del 1950 Sturzo affronta (con un articolo dal titolo Scuola e diplomi) la questione dei diplomi - del pezzo di carta rilasciato dallo Stato, visto come talismano, in grado di aprire le porte dell’impiego stabile". Sturzo è deciso: "Occorre capovolgere la situazione. sia lo studio, non il diploma ad aprire le porte dell'impiego". Ed ecco, la sua proposta: "Ogni scuola, quale che sia l'ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della repubblica, ma in nome della propria autorità; sia la scoletta elementare di Pachino o di Tradate, sia l’università di Padova o di Bologna, il titolo vale la scuola. Se una tale scuola ha una fama riconosciuta, una tradizione rispettabile, una personalità nota nella provincia o nella nazione, o anche nell'ambito internazionale, il suo diploma sarà ricercato; se, invece, è una delle tante, il suo diploma sarà uno dei tanti".

La direzione dell'Illustrazione italiana, nel pubblicare l'articolo di Sturzo, espresse in una nota alcune riserve. Sturzo, allora, inviò al giornale una lettera in cui precisava che le sue idee sulla libertà di scuola erano note sin da prima della fondazione del partito popolare e che egli l'aveva difesa nei quattro anni del suo segretariato politico "quando alla Camera furono contrastati i tre disegni di legge scolastica proposti da Croce, da Corbino e da Anile". E aggiungeva che le sue esperienze inglese, olandese, svizzera, belga e americana dal 924 al 1946 "sono state posteriori, e sono servite a confermarmi nell'idea che solo la libertà può salvare la scuola in Italia". E poi: "L'intolleranza scolastica dei laicisti è sostanziata dalla presunzione che essi difendono la libertà, mentre la libertà non è monopolio di nessuno. Il monopolio scolastico dello Stato è sostanziato da una presunzione, che solo lo Stato sia capace di creare una scuola degna del nome; mentre non è riuscito che a burocratizzarla e a fossilizzarla; in sostanza, non c'è libertà dove c'è intolleranza e dove c'è monopolio. Questa è la triste situazione italiana".

Lo era nel 1950. E lo è, disgraziatamente, pure oggi, anche se all'orizzonte pare essere ormai sorta l'alba dei giorni migliori per una scuola non più strangolata dallo statalismo.

agesc.it

provitaefamiglia.it/antiseri-per-il-bene-della-scuola-pubblica - 2020

 

 

 

Karl Popper ...

quando Wittgenstein lo minacciò...
di Dario Antiseri   -   La Repubblica

La posizione di Popper nei confronti della metafisica non mancò di suscitare perplessità tra i neopositivisti.  Queste critiche, però, non turbarono Popper, il quale, a cominciare dal 1949 se non prima, usò nelle sue lezioni l'espressione «programma di ricerca metafisico».  Nel frattempo, all'inizio dell'anno accademico 1946-47, Popper aveva ricevuto un invito dal segretario del Moral Sciences Club di Cambridge perché leggesse un saggio su di qualche «perplessità filosofica». «Era chiaro - scrive Popper nella sua autobiografia intellettuale La ricerca non ha fine - che si trattava di una formulazione di Wittgenstein, secondo la quale in filosofia non esistono problemi genuini, ma soltanto perplessità linguistiche».  Decisamente contrario a questa tesi, Popper accettò la sfida; scelse di parlare sul tema "Ci sono problemi filosofici?"; e iniziò il suo discorso, in modo un po' scherzoso, facendo presente che, negando l'esistenza di problemi filosofici, chiunque avesse scritto l'invito, aveva preso posizione su di una questione creata da un genuino problema filosofico. «Ma proprio a questo punto - ricorda Popper - Wittgenstein saltò su e disse, ad alta voce e così mi parve, con rabbia: "Il Segretario ha. fatto esattamente ciò che gli è stato detto di fare.  Egli ha agito su mia istruzione". Io non ci feci caso, e continuai; ma accadde che almeno alcuni fra gli ammiratori di Wittgenstein, tra i presenti, se ne accorsero, e di conseguenza presero la mia osservazione, intesa come uno scherzo, come un grave rimprovero al Segretario».

In ogni caso, Popper andò avanti, affermando che, se non esistevano problemi filosofici, egli di certo non poteva essere un filosofo; e aggiungendo che, siccome tanti, o forse tutti gli uomini, si affidano in maniera sconsiderata e acritica a soluzioni insostenibili per tanti o forse tutti i problemi filosofici, è allora sufficientemente giustificata l'esistenza di filosofi.  Ma ecco che Wittgenstein salta su un'altra volta, interrompe Popper e parla a lungo sulle perplessità linguistiche e sulla non-esistenza dei problemi filosofici.  Di nuovo, Popper: «Al momento che mi sembrò più opportuno fui io ad interromperlo, presentando un elenco da me preparato di problemi filosofici, come: Conosciamo le cose attraverso i nostri sensi?  Otteniamo la nostra conoscenza per l'induzione?  Wittgenstein li respinse, dicendo che erano problemi logici piuttosto che filosofici. Posi allora il problema se esista l'infinito potenziale o forse anche quello attuale, un problema che egli respinse come matematico. Ricordai quindi i problemi morali e il problema della validità delle norme morali.  A questo punto Wittgenstein, il quale sedeva vicino al caminetto e giocava nervosamente con l'attizzatoio che talvolta usava come bacchetta da direttore d'orchestra per sottolineare le sue affermazioni, mi lanciò la sfida: "Dai un esempio di una regola morale!". Lo replicai: "Non minacci conferenzieri ospiti con gli attizzatoi".  Dopo di che Wittgenstein, infuriato, gettò giù l'attizzatoio e se ne andò adirato dalla stanza, sbattendo dietro di sé la porta».

Popper è pronto a riconoscere di essere andato a Cambridge con la speranza di provocare Wittgenstein e di combatterlo sulla tesi per cui non esisterebbero problemi filosofici autentici.  Tuttavia, egli confessa che fu per lui una sorpresa il dover constatare che Wittgenstein era stato incapace di capire uno scherzo. «Solo più tardi - ammette Popper - mi resi conto che forse egli capì veramente che io scherzavo e che fu proprio questo ad offenderlo. Ma, anche se avevo voluto affrontare il mio problema in modo alquanto scherzoso, prendevo la cosa con la massima serietà, forse ancor più dello stesso Wittgenstein, giacché, dopo tutto, egli non credeva in problemi filosofici genuini».

Wittgenstein, dunque, lascia la sala; ma la discussione prosegue.  Bertrand Russell fu uno degli interlocutori di maggior spicco; e Braithwaite si complimenta con Popper , dacché Popper era stato «l'unico che si fosse azzardato ad interrompere Wittgenstein allo stesso modo in cui Wittgenstein era solito interrompere chiunque altro».  Il giorno seguente, durante il viaggio di ritorno da Cambridge a Londra, nello scompartimento del treno Popper trova due studenti, un ragazzo che leggeva un libro e una ragazza che leggeva un giornale di sinistra. «All'improvviso la ragazza chiese: "Chi è questo Karl Popper?".  E il ragazzo replicò: "Mai sentito parlare".  Ecco la fama. (Poi venni a sapere che nel giornale c'era un attacco a La società aperta).  La storia dell'incontro al Club delle scienze morali non finì, comunque, sul treno da Cambridge a Londra; «divenne quasi subito oggetto di discorsi fatti a vanvera».  Così ricorda Popper - «a breve distanza di tempo fui sorpreso nel ricevere una lettera dalla Nuova Zelanda, in cui mi si chiedeva se fosse vero che Wittgenstein ed io eravamo venuti alle mani, entrambi armati di attizzatoi.  Più vicino a casa le storie erano meno esagerate, ma non tanto».

www.gndesign.it/popper/interviste.htm

www.paolomalerba.it/epistemologia/Testi/Metafisica

 

 

WE CAN'T SOLVE PROBLEMS BY USING THE SAME KIND OF

THINKING WE USED WHEN WE CREATED THEM
albert einstein

 

 

 

 

 

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